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Un pittore

29 Dicembre 2017

Al tempo lui si credeva pittore.
Un giorno disegna con gli acquarelli ai giardini pubblici, giunge lei a trovarlo. Sono i giorni prima di partire per l’Irlanda, il viaggio stabilito per il Capodanno del 1977.
“Come faremo quando non sarai più bella? Verrà il momento, sai.” Lei sorride, non le pareva possibile di poter invecchiare o che lui sarebbe invecchiato. Si ritrovò a pensarci adesso a quella frase, come ritrovasse quelle visioni nella nipotina sedicenne che mangiucchiava il pandoro.
“Azzurra, tutto bene?” Le chiese la sorella. C’era appena stato il cenone di Capodanno e tutti gli uomini si erano spostati in sala, di fronte alla tv. La nipotina si annoiava, avrebbe voluto raggiungere le amiche. Azzurra le sorrise, era così anche lei un tempo. Per quello continuava a pensare a Cristiano, a ciò che le disse per scherzo.

Poi i due si tengono per mano lungo le strade di Dublino, lui come aveva fatto ai giardini giorni avanti continua a parlarle della bellezza, che fugge. E’ notte nera, sui ciottoli rischiara un lume e in lontananza ancora qualche botto sparuto, qualche pira sommersa che splende sulla rotaia del filobus. Gli occhi abbarbagliano nel buio, gli uni contro gli altri. La gente in strada è ancora molta, tutti festeggiano. Non è passata una settimana da quella frase fuggevole detta ai giardini pubblici, quando si credeva pittore. Ma gliela ripete, scherzando: “Cosa faremo quando non sarai più bella?”
Le case basse di Dublino intercettano la luna. I due giocano e si spintonano. Anche la sorella strattonava Azzurra nel presente, ma lei non voleva uscire da quel ricordo. Il pensiero si prolungava come un sasso gettato da una rupe, sussurri vaghi e ticchettii, il bisticcio amoroso, tutto tornava di quella strana serata irlandese. Era finita, così. Adesso viveva il tempo di altre storie, esisteva per la famiglia, un’altra. Il marito, la sorella, la nipotina. Non aveva figli ma poteva dirsi piuttosto appagata. Eppure in coda d’anno, ogni volta, ogni veglione ci pensava. La maledizione di quell’anniversario non poteva del resto passare inosservata. Tornava indietro, ancora, fino all’ultima notte che pure era nitida come quella presente. I giorni passati, le estati, lei che gli fioriva tra le mani e cacciava gli sguardi degli altri ragazzi. Simile alla nipotina sedicenne. Chissà se davvero mi avrebbe amata anche da vecchia…
Eppure non era giunta la vecchiaia ed appariva tutto come uno scherzo infimo.

Sono di nuovo ai giardini nei suoi ricordi, parlano del viaggio. Poi Crisiano ripone gli acquarelli, prendono la bici diretti fuori porta, dove repentinamente inizia la campagna. Ci sono alcuni piccoli sentieri che gelano al mattino. Tutto di nuovo scompare.

Ecco suo marito, la sua voce dolce, fastidiosa.
“Iniziamo con la tombola. Vieni?”
Azzurra annuì come per riflesso ma senza capire nulla.

Un campo di terra nera corre davanti la facciata di un cascinale, riposano tre o quattro braccianti dal lavoro, gli arnesi riversi a terra. Lei e Cristiano sfrecciano sulla bici, lui ha le mani intirizzite dal freddo ma non ci bada; vorrebbero prendere ogni piccolo sentiero che butta verso le vallate, le distese brune che approdano al cielo invisibilmente, come nei suoi acquarelli. E poi le speranze, le speranze!

La sua voce tornava come un’eco lontana ma confusa, come il canto di uno zufolo sospinto dai venti che però a malapena si decifra. Altri luoghi incoerenti gli sfilarono in mente. Erano quelle le ultime cose, le giornate in campagna, fredde di fine dicembre. Ed ecco l’Irlanda.

Le alte vetrate dell’ospedale splendono al mattino di una luce bianca, lui è appena morto.
Tutto facile, tutto finito, i ciottoli, il sangue. I due scherzano fino a pochi minuti prima, parlano di quella cosa lì, quelle battute sulla gioventù, sulle altre donne. Se fosse passato un tram di quelli italiani se ne sarebbe accorta, ma quei filobus sono così silenziosi, sfilano via nel buio di Dublino come tanti spettri. E così lei lo sospinge, lui la strattona, sono presi da quei giochi amorosi, dal fastidio eterno e delizioso che hanno gli innamorati addosso quando camminano per strada. Una spinta un poco più forte, lui si sporge, sorride. Ha sorriso! Che orrore… la vibrazione di quelle cose torna adesso al cenone mentre i parenti, il marito, la nipotina sono ombre, nient’altro. Ogni cosa è priva di senso. Lui a terra, sono passati quarant’anni ed è appena passato il filobus che lo ha tranciato. Il sangue si spalanca sul pietrisco e presto è lavato via dalla pioggerella fina di Dublino. Le alte vetrate dell’ospedale splendono al mattino di una luce bianca, è appena morto, lei lo ha spinto, lo ha ucciso in quel gioco.
Ma quei filobus sono così silenziosi…
Si avvicina un’infermiera zoppa dalle gambe gonfie, ha i capelli nericci tutti arruffati sulla fronte, lo hanno appena portato via. E lei lo ha ucciso. La donna irlandese le porge una tazza di caffè nero, le tremano le mani e il caffè le cade sulla sedia dove posano sparpagliati gli acquarelli di quel giorno al parco. Gli acquarelli che teneva nello zainetto sbranato sulla rotaia.
A quel tempo si credeva pittore.

 

 

 

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Credo che l’uomo viva nel bisogno di raccontare e ascoltare storie: la propria, quella degli altri, quella di un dio. Così da sempre, forse per sempre. Probabilmente il non-senso della vita è racchiuso nel paradosso della scrittura: possedere estrema chiarezza ed estrema finzione al tempo, così che nelle sue affascinanti acque d’inchiostro non ci si stanchi di nuotare. Almeno a me fa questo effetto

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