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Morte di un manager

5 Dicembre 2017

“Il provincialismo è qualcosa di più dell’ignoranza.
È ignoranza più una volontà di uniformità.”
Ezra Pound

 

Il paese aveva non più di diecimila anime. Arroccato in mezzo alle montagne e di una bellezza unica e antica, accrocchiato tra guglie e vie nascoste che conducevano per piazzette gotiche, era comunque ancora discretamente popolato, se confrontato col resto della provincia, ormai inglobata dagli agglomerati cittadini distesi a valle.

Da decenni c’era un immenso complesso industriale poco sotto il paesino, alle pendici del monte; dava lavoro a mezza regione, oltre che all’intero paese, ovviamente.
Soldi a pioggia per ogni piccola attività, prestigio, importanza; per tutti era una cosa ovvia; “funziona così da sempre”. E anche il Comune, espressione della solita fazione politica, era in uno stretto connubio con l’affaristica aziendale. Nessun mistero, nessuno scandalo.

Un giorno accadde però l’irreparabile. Un’operazione sciagurata volta alla scalata di alcune medie industrie contingenti alle grandi città della valle, andò male. E l’azienda ebbe un tracollo.
Ladri, profittatori, servi dei poteri forti, collusi con la politica: era ovunque la solita cantilena. Oppure semplicemente incapaci, diceva qualcuno.
Fatto sta che la grande impresa fu preda di assalti speculativi e di un declino inesorabile. Il valore azionario si dimezzò in una settimana; poi dalle classiche e primigenie magagne finanziarie giunsero le ripercussioni reali; esuberi che coinvolsero centinaia di famiglie. Infine, per non chiudere, l’azienda delocalizzò in capo a due anni.
Per il paese fu come aver perso un padre, una guida, la grande vacca sacra da mungere. Poiché il paese era proprio un bimbo, o un vitellino appunto.
Essendo di una bellezza storico-artistica peculiare immaginò di salvarsi col turismo, da sempre accorso in frotte: “Ce la faremo così.”
Anzi, adesso ogni paesano iniziò a vedere nella grande azienda il male, la corruzione, la sopraffazione di un generico potere ai danni dei cittadini.
Ingenui ma laboriosi, fieri di quell’appartenenza, si svegliavano bruscamente da un sogno fattosi incubo e di cui loro non avevano colpa, non volevano averne.

“Da quando il CDA è divenuto estraneo al territorio.”
“Da quando si ricerca solo il profitto.”
“Da quando la politica nazionale si intromette.”  E tanto, tanto altro.

Siccome la magistratura vi lesse degli illeciti nei tentativi di acquisizione, le indagini iniziarono piuttosto celermente. I cittadini adesso provavano un misto di rabbia e vergogna. Come potevano essersi rovinati così? La proba e laboriosa comunità degli avi, così attaccata a quella terra, era improvvisamente vorticata in una spirale di malaffare e ladrocinio. Era… sporca.
Di chi era la colpa? Perché una colpa ci doveva pur essere!
Ma non erano stati i paesani a benedire per decenni quel sistema politico, la staticità d’assistenzialismo e piccole prebende per ognuno? Ma non erano stati i paesani ad aver visto di buon occhio “gente esperta” venuta da fuori ad amministrare i “loro affari”?
Ora ognuno si mostrava indignato e ci teneva a manifestare ovunque la propria contrarietà a quelle gestioni scellerate.

Ma se dal dramma economico era difficile risalire la china, il dramma morale fu anche peggiore. Ci fu la morte di una donna importante infatti. E per un paesino dove faceva notizia persino il furtarello al mercatino di Natale, fu davvero qualcosa di grosso.
Una paesana come gli altri che però aveva fatto carriera nell’impresa: Cecilia Bianchi, intima conoscente dell’amministratore delegato, manager, di certo al corrente di ogni menda del crack finanziario della grande azienda, una sera fu trovata morta, appunto, precipitata dal secondo piano dell’azienda.
Sebbene fosse piuttosto ovvio il suicidio – la donna negli ultimi giorni di vita aveva mostrato un atteggiamento stralunato; le prove poi, tutte inerenti a paranoie e paure personali in conseguenza del fallimento aziendale, portavano su quella pista – ebbene, sin dal principio si insinuò un tarlo nel comune sentire. Dapprima piccolissimo, ma che cibandosi della pena collettiva per la tragedia scavò a fondo sino a considerare la donna vittima di un indefinito “qualcosa”. C’erano dei punti oscuri nelle indagini (cosa piuttosto normale in un dramma così complesso come un suicidio) ma ciò forse contribuiva a ribaltare alcune evidenze?!?
Ebbene, in paese strisciò il sospetto e si rispose di sì! La Bianchi era da sempre vista con malcelata invidia da una consistente parte della comunità: rappresentazione del potere, collusa con quello stesso potere paternalistico e soffocante, ecco d’un tratto fu l’immagine del riscatto.

Chi c’era con lei quella sera in azienda? Ci si iniziò a chiedere insistentemente. Se da ultimo, come si vociferava, la donna si era decisa a far luce sulle torbide vicende delle acquisizioni fallimentari, era evidente potesse dar noia a qualcuno di importante. Come poi non credere alle denunce della famiglia? I pochi che tra gli angoli del borgo provavano timidamente a far notare come in principio la stessa difesa della famiglia avesse accettato l’evidente tesi suicidiaria, a sostenere le tesi della Procura erano ormai additati come “nemici della comunità”, anche’essi collusi con quelle forze oscure che avevano affossato il paese e la Bianchi.
E ad alimentare il sospetto e trasformarlo in certezza giunse la tv; il piccolo paese si trovò sotto i riflettori, sconvolto dal sensazionalismo dell’informazione. Cosicché la tesi del complotto si rafforzò a dismisura: la Bianchi, unica tra i potenti d’azienda originaria della zona, una volta compresa l’entità del tracollo, avrebbe collaborato per far luce e salvare almeno la dignità del paese: ebbene, aveva pagato con la vita.

Addirittura, messa alle strette da un fittizio ma insaziabile “tribunale del Popolo”, la Procura si espose con comunicati inusuali atti a informare l’opinione pubblica che ormai non voleva saperne di procedimenti e carte delle archiviazioni, avendo già mangiato e digerito la tesi omicidiaria. Il tentativo di mostrare oltre ogni ragionevole dubbio la bontà dei provvedimenti giudiziari naufragò in fretta. Qualcuno li lesse, ma la maggior parte dei paesani continuò la “battaglia per la verità”.

Fu un moto inconscio e inarrestabile poiché la posta in gioco era molto più grande del bisogno di smascherare un possibile errore legale per una tragedia singola. L’autoassoluzione di un’intera comunità e la ricerca del martire, permetteva ai cittadini di lavare ogni senso di colpa per il crollo: se il suicidio appariva come un atto di resa, l’omicidio di un loro membro, benché in alto nell’ormai malvista gerarchia sociale, era il sintomo di una volontà nemica, esterna, fautrice dell’azzeramento economico e morale del luogo. Da incompetenti a vittime, a innocenti, a oppressi.

Ci fu una terza riapertura del caso ma come prevedibile il verdetto rimase il solito. Il paese ancora chiedeva verità, la sua, mentre sempre più sprofondava nella crisi; senza l’azienda, il turismo che pure invadeva da sempre le viuzze montane, da solo non bastava; ne bastò lo spirito da piccoli bottegai dei paesani che provavano a reinventarsi a ogni stagione. Il mondo mutava, il paesino come un roseto travolto dai venti sfiorì.

Rimasero poche migliaia di illividiti dal risentimento, chiusi nei loro complotti, tra lotte familiari e politiche, come tornati alle faide medievali. Uniti nel solo sentire comune che qualche forza oscura, dall’esterno, li avesse distrutti.
Dove riposava la vecchia età dell’oro?
Perduta, uccisa come Cecilia Bianchi. E in onore della donna il nuovo sindaco propose un cippo commemorativo nella piazza principale. Gli abitanti passavano di lì, lasciavano i fiori, parlavano di lei come dell’unica possibile salvezza quando tutto stava crollando. Si cercò di scuotere l’opinione pubblica nazionale che si era cibata del caso da principio; inutilmente, era stato dimenticato come si fa con le piccole disgrazie da chiacchiericcio. Addirittura la famiglia della Bianchi aveva pubblicato delle memorie sulla vicenda che avevano riscosso un discreto successo editoriale; adesso però più nulla.

Quando dopo quarant’anni il piccolo borgo fu abbandonato dagli ultimi abitanti, restò solo quel cippo commemorativo; logoro dall’incuria dove le foglie fradicie d’autunno si appiccicavano oscurando la scritta “Il Popolo volle”.
Qualche turista impegnato nel giro della vallata delle volte anelava a scendere nella “città abbandonata” per qualche foto di rito.
Poi risaliva nel bus e se ne andava.

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Credo che l’uomo viva nel bisogno di raccontare e ascoltare storie: la propria, quella degli altri, quella di un dio. Così da sempre, forse per sempre. Probabilmente il non-senso della vita è racchiuso nel paradosso della scrittura: possedere estrema chiarezza ed estrema finzione al tempo, così che nelle sue affascinanti acque d’inchiostro non ci si stanchi di nuotare. Almeno a me fa questo effetto

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