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Le dis-funzioni della poesia (parte seconda): l’età dell’oro

23 Ottobre 2019

Le vostre età dell’oro sono come Damasco e Costantinopoli:
belle a distanza; bisogna camminare per le loro strade
per vedervi i lebbrosi e i cani famelici.

Marguerite Yourcenar.

Il poeta è un vero mostro di stupidità, eppure sempre si professa nuovo. Disadattato, anela a un inesistente passato sommerso e d’oro, quando, presume, si potesse legiferare di fantasia.

Il mondo come bacio carsico e primigenio dove fu semplice perdersi, domare nell’amore gli istinti e gli istinti innalzare. Fasulli poemi allorché, suppone, giganteggiavano fauni e suonavano le siringhe impregnate d’acqua e poi scosse di sole, dal vento fatte vibrare. Era il canto di latte.

Che mondo orribile e di strazio, che mondo inutile dai piedi scalzi invece. Che mondo è mai quello del bisogno?!?

Giacché il poeta non vuol perdersi come un uomo nella sola malinconia dell’infanzia; egli crede a un’infanzia globale del tempo, dell’arte. Prende in braccio sommarie stelle e subito si pente, dacché comprende i soli come luce morta.

Quando l’Eletto avrebbe dunque tiranneggiato diluviando le proprie frustate di versi?

Si immagina d’esser stato abbracciato alla natura azzurra e verdissima, per grotte intrise di sole. Casomai il suo regno sarebbe potuto esistere solo tra escrementi e rami, freddo di foglie, gole d’orrore; quando gli animaletti succhiavano sangue ed era sciacallo. Come avrebbe potuto nomarsi Dio?

Ha gli occhi allacciati sui tetti
colle pupille concrete
e sogna l’età dell’oro.
Ma la pioggia
porta nomi rotti e
altri visi alla sentina
dal lavoro;
senza il sollievo dei poeti
che rimano,
tutte loro le mani ventose.

La pioggia è sempre dolce
per i sopravvissuti
nelle case editrici, la nuova corte,
o nei sobborghi del vino,
scansati dalla violenza
impiegatizia,
cantieri o negozi
dello Stato di classe.

Il mondo resta groviglio industriale e di natura e non compie passi indietro, vora avanti la terra e rimescola l’ossa in un grande frantoio. Giorni spremuti e sognati male, intrisi in orina chiamata anima, cola. Cola. Mentre la volpe scuote l’alette della gallina sbranata e quel sangue goccia sul muso. Solo quello poteva chiamarsi società, l’istinto.

Ma è breve. E il senso corre sulla fronte per pochi momenti. Giorni insaziabili, giorni dove il presunto dio vagava estraneo, incompreso, satollo e poi di estrema magrezza. Riposa adesso sotto le frasche, derelitto, emarginato. Stremato ormai. Giù, a calci va preso! Il dio trascorre la notte nell’adolescenza dell’uomo e lì non trova posto. Il ragazzino-titano di meglio dovrà fare. Un giorno, Uomo, ad aprire il cespuglio per ritrovare il poeta, dargli pane giallo e morbido, renderlo obeso, mostrargli l’Arcadia a venire. Non lo troverà affatto, lo avrà già ucciso, per fortuna.

Libertà senza memoria.

Gloria di star soli, palpitanti piedi non più nudi, non più con dita ritratte tra rosse radure. Senza sterpi immaginati come troni di satiri. Grandi cavernose città d’oro, finalmente abiurate come poveretti idoletti d’arte negra.

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Credo che l’uomo viva nel bisogno di raccontare e ascoltare storie: la propria, quella degli altri, quella di un dio. Così da sempre, forse per sempre. Probabilmente il non-senso della vita è racchiuso nel paradosso della scrittura: possedere estrema chiarezza ed estrema finzione al tempo, così che nelle sue affascinanti acque d’inchiostro non ci si stanchi di nuotare. Almeno a me fa questo effetto

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