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In Società

Le dis-funzioni della poesia (parte quarta): la vita e la patria

4 Novembre 2019

“La Patria è un insieme di fiumi che si gettano nel mare.
E il mare è la morte.”
L’angelo sterminatore

 

Finalmente, da un secolo, il popolare meretricio è appagato… e il poeta può cantare.
Ha dato le proprie robuste reni per commentare nell’urna un bisbiglio di sepolcro.

– Posso pagarti solo con questo, ha detto lo Stato.
– Ma questo mi basta! Eccome. Pensa che un tempo eravamo chini sull’aratro. Io non ho certo temprato i figli alla miseria. Avete almeno un divano?
– Miseria? No, davvero no. E di che parla? Tutti hanno carne e senza vermi. Tutti hanno casa con latrine, e succhi di pompelmo. Tutti hanno il gioco e il figlio dal gradone vola coi pattini, allo Stadio ho urlato il cognome di uno che vorrei morisse e mi sono sentito bene.

Un giorno di sole, ogni tanto, tre mura e la quarta sono io, un diversivo dall’amore coniugale.

No, no, non più sventrare il fetido futuro; siamo cresciuti ormai. E avete visto come siamo caduti, da bimbi, con quelle idee? Cercavamo i sogni che qualche criniera di pezzente c’aveva scrollato addosso; com’erano gravide di speranze le nostre sere, i circoli fumosi delle ciminiere. Ci siamo fracassati il capo sulle mattonelle, nei solchi tra l’una e l’altra barricata, scorreva un rigagnolo di sangue nero, violento. Il bambino, questo bimbo sociale aveva attrezzi da lavoro in mano, voleva gettarli nel pozzo del giardino assieme alle monete. Il bambino voleva smettere di vivere? Ora è protetto nella casa del genitore. Una casina ben illuminata, in centro. Il nome è quello del padre: la patria.
Questa idra a cui nessuna testa si mozza e due comunque ne ricrescono.

Per millenni, dalle croci ustorie ai sacrifici sul cranio di montoni abbiamo assistito alla carnevalesca farsa del dio. Finita una superstizione ne subentrano altre, addirittura più laide, senza valore parlano sangue, annegandoci. E la poesia, il poeta addirittura dovrebbe cantarle.
Radici e altri spettri simili ad arabeschi o ninnoli.
Plebaglia, popolo, canaglie, avete reciso le catenelle che al cielo annodavano le teste dei re per marciare col sale sparso sui cretti di sangue. Avete in mano il mondo, la trebbia, l’officina, l’ufficio, avete le cornee pulite dal laser e le scatole del tempo aperte. Ma il mostro dello Stato ancora sverna, schiantati i pastorali sulle colline, l’Imperatore caduto con le tagliole alle caviglie nere.

C’è sempre quel bel suono borghese
che vi chiama. Uguale ai cattedratici
sacramenti.
Calma. E’ la notte dei mille bambini
dopo il secolo dei rivoli rossi e
della sete.
Ma dov’è la nostra colpa
se abbiamo solo perso una via?
Siamo per giunta così infagottati?

– Sa, signora di questi periodi un buon lavoro. E mi parli di suo figlio. Dunque?
– Arrotonda.
– Fa bene!
Truccate, alla panchina.

Lurida testa riccia, vieni incrostata di sangue sul nostro tempo. Appendi le tue scarpe logore alle grate del paese, strangola coi lacci emostatici le donne bianche e bevine il sugo. Il midollo va succhiato e poi sputato nel vasto mare mentre battono pescherecci dalle reti colme, dove tuo figlio, re delle negre vestigia, è annegato. La poesia, certo, potrà cantarti.

Coi corpetti rigidi vanno le borsette
a tracolla. Vetrine e luci azzurre,
mangiucchiando dolci nel pomeriggio.
Passa semisvestita alla passerella del Corso
una madre gonfiata di vita.
Il randello per maciullarle la testa è
nelle mani di una setta che ha nome.
Lo stringe uno spettro dagli occhi gialli!
Tenetelo in serbo per lo Stato,
sui nuovi quartieri e l’edilizia popolare
venduta con tre giardini per tossici.
Stretto per la bellezza
da ricchi, le estenuanti primavere
dove sgorga ogni siero, conservatelo per
gli autoscatti, l’opulenza. La donna,
la donna è la vecchia perenne.
Penseremo dopo a questo,
tenete stretto intanto il mazzuolo.

Il popolo avanza come sterco fumante e caldo. Lo Stato sa bene immergervi le mani per creme ed ulcere sul corpo sociale.
Lo Stato getta la palla di pezza nei canti neri del vicolo e tutti corrono, urlanti. Una discesa di spine, poi la salita. Fermi! Qui c’è una casa, la elargisce l’Italia e un mutuo a cent’anni.
E’ vecchia, col trave mangiato dai tarli, ma sta su! Lode.
All’incrocio anche un lavoro nuovo! Che giornata! Il poeta, dov’è? Dovrebbe fare un’ode subito.
Taxi automatizzati, il taccuino di cene pronte per il direttore, le fotocopie… quale onore!

La gru sbarella allacciandosi al cielo,
rametto del pomario e pomi marci,
appesi ai ganci
gli operai.
Cade uno.
Era maturo, dice lo stato, era pigiato.
Ho visto muratori del passato
dare la mandata molto meglio.
Poteva studiare, eccome.
Starnazza sul precipitato.

– Sai, mio figlio invece ha tre negozi.

Ti sei innamorato del talento di un bravo ragioniere, della ragazza che sulle scale della scuola parla della vita come davvero l’avesse vissuta. Ti sei innamorato davvero?
Ci proteggerà qualcuno, oh certo, e metteremo su casa, di fronte a quel laghetto arginato di pioppi. Quattro botteghe chiare e poi l’emporio.
Sì, sì. E lungo il viale un palazzone e il kebabbaro. Porterai le pizze e ci proteggeremo.
Compagno Governo, aiutaci, incentiva un motorino, metti la tassa alla plastica, ché si possa salvare così il mondo. Nel seminato cuore già avevamo visto crescere qualcosa. Ecco i nostri campi, le chiesine, perfino le periferie coi terrazzi vuoti e i mattoni paiono rosse fucine di bellezza. Ma siamo noi, almeno! La nostra gente, ci conosciamo tutti. Come si canta alla sera! Fammi danzare da innamorato la stupida romanza di identità. Balliamo finché siamo giovani.
Facciamo finta che dalla discoteca non esca droga ma solo un suono d’organino. Fuggi la siringa del reietto e il suo negletto sogno.
Quando la mitraglia crepita lontana è comunque per noi la missione di pace. Qui preoccupiamoci solo per il weekend, poi possiamo scroccare un anno l’università prima delle sabbie mobili dell’occupazione.
La nostra guerra civile chiama a sgomitare nell’agone. Meno imposte e più servizi, sebbene l’autunno sia prossimo e lo Stato, famelico di grano, ne abbia bisogno. Allora sì che è davvero notte.

Ma adesso pensiamo a mio figlio.
A scuola non vuole andarci. Il lavoro gli pare schiavitù e servigio per altri. Che idea oscena! Vorrebbe un lavoretto come giardiniere. Potare, tanto meglio, o lo straccio di letteratura. Mio figlio ha l’occhio smorto e bugiardo, così verde! E gli pare bello solo fumare e come bestemmia, maledizione! Vorrà forse essere poeta?
Ha una ragazza che bacia soltanto dal collo in giù, la giovane che manca poco ingravida, già ha segnato un aborto nella cartellina adolescente.
Ma ci proteggerai terra mia, terra dagli avi con la testa rasa di capellicchi neri e frementi nervi, tarchiati sotto il sole, accucciàti di miseria. Traversano infimi ruscelletti questi figli d’Apollo.
Non lo dico per me, grande Patria. Lo dico per lui e gli altri giovani. Sono buoni e nei giardini nemmeno pisciano sull’ortica. I giovani sono con gli occhi pesti e sotto il tuo tenero maglio giurano, mangiano se gli dai carne, pregano e si accecano al plasma, almeno non possono incolparti. Nazione, trovagli a tutti un posto fisso degno dei re. Guarda, guarda, sono caduti, dai monti ruzzolati i grandi massi dei valori eterni. A valle riposano sul letto asciutto dell’Elba.

Ecco il mondo e la vita: si servono tenerelle le lattughe sul banchino del mercato. I pomodori, già adesso? Non erano fuori stagione?!? Oh, ma c’è tutto. E quanto costano poco gli operai! E le saponette? I macchinari, questi non si rompono! Vi sono arrivati i commessi nuovi? Li facevate a pochi euro. Già finiti, dannazione. Sarà meglio il capitale costante al bravo imprenditore.
L’uomo ad alta densità organica, l’uomo senza dimensione l’ha comprato lo Stato perché è nato qui, ha proprio i ciuffi biondicci che si hanno da queste parti e parla un dialetto fluido, occhi d’ebano, le croste di sale sul torso. Assistiamolo questo figlio, costa poco, nemmeno studia.
Può fare ogni lavoro. Lo fa, lo fa! Appendice di macchina. Macchina. Lo fa. Oh, la rassicurante veglia di ferro, la polizia che sputa in terra. I cortei senza fretta per l’aria condizionata. Sul tram si ingambano decine di fanciulli, mio figlio disoccupato ha appena pestato un rumeno.

Ti protegge lo Stato figliolo, torna da lei ora.
Posati sulla panchina arrugginita
sui bordi e dentro un fazzoletto di baci
Scrivete il vostro nome sulle stanghe.
La chiamerete poesia.
Al cielo. Mettile la mano sul ventre
e ramifica un sogno.
Ricorderete questo tempo senza inganni.
E come vi sembrerà lieto quel mondo
di giardini sul colle cittadino.
Vogliono sentir mugghiare la bestia
e la Nazione.
Sgozza, sgozza più che puoi
e una casina sarà tua.
La giustizia dello Stato è la ragione
del più forte, che i culi penduli
chiamano diritto, quando il più forte
ti dà ragione.

Qui va tutto male, si sente dire.
Oh, sapessi che mondo hai da vivere. Si rivorrebbe l’aratro, persino l’Imperatore! La servitù banale che spezza gli stinchi. Abbiamo invece avuto il diritto di parola e una lavatrice.

– Merde! Carogne! – qualcuno urla – possiamo mai essere felici con otto ore di lavoro, sulle strade o dentro a un magazzino? Ho pulito gli scaffali. La lezione all’università è così noiosa.
– Maledetti! – Urlava al sindacato che patteggiava, che faceva “gli interessi di tutti”, sorbiva immensi boccali di birra e sangue allo Stato sovrano – che ingrati questi subalterni. Ma non siete felici?
– Bastardi! Ho settant’anni e ancora lavoro, ancora corro e sgobbo. Ma sono con la coscienza di bimba, io che nella vita non ho mai fatto un giorno di malattia. Il lavoro è dignità, mi hanno detto in alcuni libri. Chi mi darà un premio? La medaglia d’onore? Non c’è niente? Nemmeno una pergamena fogliata d’oro che possa farmi gioire?
– Luridi irriconoscenti! Non siamo altro che merce, gemeva la grassa dalle tettone, e quel terrazzo da dove berciava pareva franare. Comprateci, per dio, comprateci: la libertà salariata.

Ma come corsero tutti poi, le bocche prima schiumose ora cucite alla fanfara, alla ronda rossa dei tamburini, ai pennacchi di parata.
– Un mio amico ha la divisa chiara. Rattoppa il buco nel cuore. Senti, senti il tuo petto adesso, scorda i rancori. Mio figlio, eccolo al passaggio dei carri. E’ tutta colpa nostra, non piangiamo. E come gridano tutti: Viva l’Italia!

I proletari non hanno patria, i poeti nemmeno il mondo.

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Credo che l’uomo viva nel bisogno di raccontare e ascoltare storie: la propria, quella degli altri, quella di un dio. Così da sempre, forse per sempre. Probabilmente il non-senso della vita è racchiuso nel paradosso della scrittura: possedere estrema chiarezza ed estrema finzione al tempo, così che nelle sue affascinanti acque d’inchiostro non ci si stanchi di nuotare. Almeno a me fa questo effetto

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