Il poeta è la meno poetica delle creature:
non ha identità
– ma di continuo foggia
e riempie qualche altro corpo.
John Keats
Sono poeta! Mi hanno premiato a Roma a quella rassegna. Ho un contratto fruttuoso dopo essermi rotto gli occhi, maledizione, a ticchettare parole che sul video mi appaiono più che altro moscerini o vermicelli , un mediocre pointillisme. Parole apparse giallo limone, ora verde veronese. Le metto insieme banalmente, da poeta, appunto.
Feroci
giorni e sordi
attendono.
Ho provato il male del furore incompreso e ingabbiato. Nondimeno scrivevo e ho scritto. Per anni, si diceva. Adesso il riconoscimento del pubblico mi permette alcune imprese senza giudizio.
Lasciando la mia famiglia domattina, mio padre, le mie sorelle, come tutto mi è apparso in sogno. Lasciando i miei cari, dunque, come in una fuga progettata e da subito repressa, sarei colto da impietosi giudizi borghesi.
“Ha figli piccoli. E la moglie? Poverina! Dove vivrà?” Sarei subitamente considerato un reietto. Ma da poeta invece (e adesso lo sono!) tutto mi è concesso.
“Sa, signora, come sono fatti gli artisti…”
Potrò muovermi libero come una piccola stella sconosciuta, girovago tra stamberghe che nelle assi del pavimento hanno impresso la feccia di un sangue mai lavato. Sui davanzali della dimora d’un cencioso pittore vedrò alcuni tubetti di cromo mal spremuto. E i viaggi poi! Finalmente un mondo sorge e trema, mi pagano per guardarlo.
Bardata su d’un fiordo, come cucita e in bilico sui pinzi erbosi, ecco la neve. Io che le canto, raggelo e bevo.
Mangio pane alla maniera dei poveri affinché sia tutt’ossa, perché l’arte possa nutrirsi solo della mia polpa, sui nervi neri e scoperti. Ancora bevo, da poeta, ovviamente, smodatamente. Dormo in alberghi raccattati alle periferie e canto il vomito e i ferruginosi androni delle rimesse. La rotaia spoglia ove affiorano sterpi e gorgoglia il senzatetto. Scrivo accenni di nulla, ma stesi in forma di versi, Cristo! Io in un vecchio due stelle che scrivo:
Com’è chiara
da qui
la violenza della notte
sulle case, edera appesa
le nasse, i versi dei portuali.
Marsiglia ventre di mare
taceva ogni orribile
segreto.
Affinché l’ospite dopo di me, nell’albergo legga l’inutile singulto di parole.
“Guarda, Richard, di qui dev’esserci passato un poeta. Hai letto questo biglietto al chiodo dell’attaccapanni?”
“La donna delle pulizie non se ne deve essere accorta. Che c’è scritto? Bah, che importa.”
Invece, stupido Richard, dovresti saperlo che a lei piacciono queste cose.
Viaggio ancora, vivendo poco di piccoli respiri e mal digerendo la bellezza di un terreno sarchiato, tutto violetto, che mi dà i brividi poiché nemmeno posso cantarlo come vorrei. Ma ci provo e scrivo sciocchezze. Ormai pubblicano tutto ciò che scrivo. E come lo interpretano bene!
Vivo molto poco e bevo comunque, giù, nel mezzogiorno francese. Prima di tornare in Italia mi fermo per qualche quartina veloce, giusto per raccontare di com’erano i cipressi neri d’Arles immersi nello zolfo dei campi. Appena fuori dai girasoli mi siedo su un Direttissimo per Torino, dove sosterò qualche giorno. Poi gli appennini e la bassa Italia.
Ho delle conferenze a Palermo, una sorta di cenacolo, mi hanno detto ridendo dalla casa editrice. Chissà se mi siederò in un caffè, io, così stracolmo di me ormai. Scolando qualcosa di forte al mattino, giusto perché qualcuno mi noti e dica:
“Che scempio!” Oppure:
“Dev’essere un artista, quel disgraziato.”
Esatto, sono poeta e ho diritto allo scempio, poiché io scorgo la vita vibrante e il parossismo, le mani che tremano, le vecchie contadine ammazzate di sole nei quadretti veristi appesi chissà dove. Io riesco a verseggiare su ogni merda che la natura crea e l’uomo calpesta. E’ così che funziona, no?!?
Nel filo ferroso della tranvia leggo lo strascico d’amanti inseguiti dalle responsabilità e nelle guglie torinesi un pianto di bimbo. Scrivo e lascio al vento.
“Signor Editore, scelga pure. Ho scritto per sentimento, dunque è tutto valido.” Che idiozia, sono poeta e scrivo come il fiore s’impollina, perché non sa far altro. Il poeta è completamente analfabeta della vita, che è ragione. Il poeta è istinto.
Sì, questo andrà bene come discorso per la presentazione che terrò a Palermo. “Il poeta è istinto”.
Ecco, fra le mani questo scritto inutile che non rileggo. Vale solo per un momento. Quando il poeta si sente tale, simile al ragazzino in sella alla moto che esonda e lima il traffico della città, la stessa al tramonto bussa alle finestre. Sarà al suo primo appuntamento, il ragazzo.
Mi sveglio. Ero poeta nel sogno e nessuno mi parlava, poiché io solo parlavo al mondo, ero un disadattato a peso d’oro.
E per un momento penso a ogni vita di poeta non vissuta, e di pezzente al bordo del mondo. E di donna lasciata, di bimbo che s’abbozza alla vita assieme a milioni. Uno solo sarà poeta, riconosciuto tale, pagato per esserlo! Che roba!
Resta il ragazzo che romba via con la moto al crocevia lontano fuor di finestra, pensando a come la toccherà a quel primo incontro. Eroico e indefinito, impaurito come ogni sorso di poesia che sgocciola dalle stelle intatte.
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