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La telefonata

20 Novembre 2017

 

L’ho incontrato stamani, finalmente!
Erano mesi che ci guardavamo all’università. Lui, bruno, capelli cortissimi, un sorriso… no, non ha mai sorriso ora che ci penso. Del resto, non mi ha colpita questo di lui? Quell’affascinante imperscrutabilità.
Per sei mesi ho preso quello schifosissimo tè alla macchinetta di fronte all’aula di economia, ogni mercoledì alle dieci e trenta purché mi notasse. I suoi orari erano quelli ed io, piuttosto spigliata con tutti, ebbene, con lui non emettevo un fiato: mi limitavo a guardarlo cercando di rendere il più profondo impossibile il verde scialbo dei miei occhi.
Ma è un ricordo lontano. Già fuggito. Eppure stamani eravamo insieme.

“Ire…”
Chi mi sta chiamando?

Poi tre piccole case cantoniere e tre colonnine di marmo di fianco ad ognuna. La strada è avvolta dal bosco e ogni tre chilometri c’è una biforcazione per paesini sconosciuti.
Canto beatamente i Moody Blues, il cd del babbo. Ho questo gusto retrò riguardo ai dischi. Sì, ecco, la numero cinque.
Dunque, stamani mi ha parlato; ci dobbiamo trovare! Non era così tenebroso come credevo, anzi al primo approccio si è rivelato carino e piuttosto impacciato. Tre, tre,  tre, cinque… Io e lui.  Io e lui, siamo due, due anime sole sotto gli androni degli studi, sotto le volte dell’anima. Io e lui, due.
Usciamo stasera per la prima volta. Oddio, fremo! Tre casine rosse oltrepassate, ancora, tre alberi dal fusto più nero e coperto di un lieve strato di mota portata dalle piogge.
Ecco la curva, devo guardare diritto.
“Chiamami quando sei per strada.” Mi ha detto con quella voce profonda, calda. Oggi lo bacerò. Ormai ne sono certa.
Tre case, tre alberi, tre biforcazioni che oltrepasso. Ancora la canzone, la numero cinque.

“Irene mi senti?”
Chi è?

Dopo il cinque ecco il due. E poi tre ore per averlo del tutto mio, stasera! Tre le sessioni d’esame che mi mancano alla laurea…  Sei mesi che lo vedo, lo fisso, me lo mangio con gli occhi di fronte a tutti; che me ne frega! Adesso sarà mio, io e lui. E altri mondi che immagino; l’amore, il sesso. Magari è l’uomo giusto come dice la canzone, quello della vita e che ogni bambina sogna.
Che sciocchezza! Ma ogni bimba lo fa, io lo facevo del resto; fantastico sul principe azzurro, anzi bruno, come l’ho chiamato in questi mesi, anche perché il suo nome (scoperto da una settimana), Kevin, beh, lasciamo perdere.
Manca poco, quattro chilometri e il ritrovo, la cena fuori. Sono abbastanza in tiro? Mi guardo le cosce. Quattro chilometri.
Digito: 333-5233624, riguardo i numeri, alzò gli occhi, le foglie d’autunno si fanno bianche, splende qualcosa di pallido come un silenzio soffice di neve.

“Ire, Irene stai bene?” La signorina, vestita anche lei di bianco mi accarezza; ai piedi del letto mia madre in lacrime, adesso mi bacia. Dove sono? Dov’è lui?
Sono sul letto di ospedale avvolta nel torpore, ho dormito qualche giorno, mi dicono. Ricordo il suo numero di cellulare, io che faccio per chiamarlo e abbasso gli occhi. Nient’altro.

Si è fatta sera e sui finestroni ticchetta una pioggerella stanca di novembre.
Mi rendo conto che una delle voci che percepivo nell’incoscienza si è fatta nitida: è mio padre. Dovrebbe amarmi, essere felice che sono viva. Eppure c’è qualcosa di pauroso nei suoi occhi, di profondo, qualcosa che non riesco a penetrare.

“Sai”, mi dice col viso riflesso sulla vetrata, senza mai guardarmi. Le luci delle auto illuminano le rughe sul suo volto e le gocce di pioggia sul vetro; e le sue lacrime trattenute a stento. Perché?
“Sai, non ce l’hanno fatta”.
“Chi?” Chiedo con una voce roca, che mi fa paura.
“La bimba e la madre sull’altra auto.”

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Credo che l’uomo viva nel bisogno di raccontare e ascoltare storie: la propria, quella degli altri, quella di un dio. Così da sempre, forse per sempre. Probabilmente il non-senso della vita è racchiuso nel paradosso della scrittura: possedere estrema chiarezza ed estrema finzione al tempo, così che nelle sue affascinanti acque d’inchiostro non ci si stanchi di nuotare. Almeno a me fa questo effetto

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