“Di che reggimento siete,
fratelli?”
Ungaretti
Quando esondò la Rionne la terra smottò con un boato che avvolse ogni paese della valle. Lo scivolamento franoso giunse fino alle case di Pontocchi e benché lo sgombero preventivo avesse permesso l’incolumità dei seicento abitanti (merito della Croce Civile), la ricostruzione richiese tempo, denaro ed energie.
Un anno dopo il cedimento la collina appariva ancora divelta come un grosso pane nero spezzato in due.
I ragazzini del borgo, ignari delle grida e degli ammonimenti delle madri, continuavano ugualmente a salire il crinale per i consueti giochi sul pianoro in cima monte.
Due del paese, un morettino riccio dai capelli setosi e la faccia grassa e un biondiccio sciapo e mingherlino, al ritorno da una delle loro fanciullesche esplorazioni, notarono ai bordi del sentiero, dove cominciava la voragine del costone d’argilla, un tenue luccichio. Il biondino scavalcò agilmente lo steccato snocciolando dal terreno un piccolo nastrino di un porpora sbiadito ma che conservava comunque un bel colore e, legata al suo piccolo occhiello, una croce di ferro con la lacca d’oro quasi del tutto venuta via. Sul retro una data. Giunse anche il morettino; i due si guardarono stupiti ed emozionati, ma solo un attimo, prima che il biondino si portasse al petto la medaglia.
“E’ mia!” Disse irrigidendo il volto per poi rasserenarsi poi di nuovo. “Chissà cos’è…”
“Ma è della guerra, per forza! – esclamò sicuro l’altro – Sepolta qui da chissà quanto.” Corsero al paese, diretti a casa del biondo, trafelati.
“Papà, papà!”
“Signor D’Ambrogio, Signor D’Ambrogio”.
Il figlio sventolò in aria il reperto, fiero di sé. L’amico gli stava vicino sorridendo e ansimando per la corsa.
Passarono il pomeriggio con l’uomo che parlava sommessamente, lo sguardo fisso fuor di finestra, mirando con cipiglio la collina di quel campo di battaglia riemerso dopo la frana. La guerra c’era stata oltre cent’anni prima e tutta la valle, avendo collaborato col “nemico”, non aveva nemmeno un cippo che ricordasse i propri morti e quegli stessi tragici eventi. Non una targa o un altarino nella chiesa, solo un’aletta buia e seminascosta nel museo cittadino. La guerra era ancora un’onta, non in quanto tale, ma per come si erano schierati al tempo i valligiani. A Pontocchi e negli altri paesini la fine del conflitto infatti non aveva significato l’affrancamento da un giogo spietato, come declamato nelle numerose commemorazioni che ogni anno gli esponenti del governo, venuti a posta, facevano nella Piazza Centrale al garrire degli stendardi. Certo, non si poteva dire apertamente, ma d’altronde la vallata era da sempre appartenuta al “nemico”. Così nei secoli. E lo si sentiva ancora.
Allora il padre raccontò per la prima volta al figlio e all’amico quel poco che conosceva di quella guerra scordata; suggestioni e battaglie, eroi dai nomi famosi o che inventava al momento. Deducendo poi dalla data scalfita sulla croce di guerra come ci si riferisse alla famosa Offensiva di Primavera, l’ultima prima della disfatta. Con ogni probabilità l’ufficiale era morto nella battaglia finale a difesa della valle.
“Quella che che ci ricacciò indietro, giù oltre il fiume dove corre la frontiera.” Pontocchi da allora era rimasto al di qua, nelle zone “liberate”.
Il babbo, ormai rapito da una storia che nessuno osava mai evocare, invitò a casa alcuni amici fidati, continuando quella discussione “da uomini”, mettendo quasi in disparte i ragazzini.
Dibatterono fino a sera, mentre la madre preparò qualche piatto freddo accompagnato dal vino.
Immaginavano quel giorno in cui l’ufficiale era morto come l’avessero vissuto, come fossero stati sul costone trincerato e dentro le case dove era infuriata la battaglia. I nastrini sulle casacche, le bandiere al vento e le bordate d’artiglieria su Pontocchi e fino al fiume. I boschi arsi dall’estate e dal fuoco della guerra. L’ufficiale eretto a difesa della collina, con le spalline lucenti e l’elmo a splendere di contro la collina stessa, cretosa e zuppa di sangue. Era caduto infine.
Brindarono solennemente finché anche il figlio, il biondiccio, non tornò al centro dell’attenzione.
“L’ha trovata lui la medaglia!” Ai ragazzini furono dette parole di merito ed encomio.
Il morettino rincasò per cena raccontando ai suoi del ritrovamento. Il padre ne fu orgoglioso:
“Un ufficiale… Grand’uomo dev’essere stato!”
La madre, percependo una vaga frustrazione del figlio, cercò di dargli comunque importanza.
“E’ anche merito tuo il ritrovamento. Di certo sulla collina ci saranno altre medaglie, ne rinverrai una ancor più valorosa.”
L’avesse visto prima lui, quel dannato luccichio! Fosse stato solo un po’ più agile! Si diceva. Tutti lo avrebbero ammirato!
Due giorni dopo il piccolo cimelio fu consegnato al direttore del museo cittadino; si tenne anche una circoscritta e dimessa cerimonia; la medaglia fu esposta nell’aletta d’allestimento dedicata alla guerra. Sebbene non si potesse glorificare alcunché del nemico (il paese stesso era stato il nemico!), il biondiccio ogni giorno dopo scuola andava al museo e guardava il suo trofeo col nastro porpora e la data dell’ultima grande offensiva. La croce lucente del miraggio di vittoria, il simbolo di assalti vani e per questo eroici. Immaginava con l’amico, che comunque l’accompagnava, il nome dell’uomo: Rodrigo, Adelmo, Vittorio, qualcosa di altisonante o regale; Alessandro. Il loro eroe doveva essere stato alto due metri almeno, lo sguardo truce che si confà al guerriero, fisico agile e possente al tempo.
Sull’episodio della morte, epica di certo, dibattevano poi per ore: solo, abbandonato alla difesa strenua della collina e del paese, l’ultimo ad andarsene. L’ultimo a cadere nel fango tumultuoso della Storia.
Le settimane seguenti il morettino, senza dir niente all’amico tornò ogni sera sulla collina divelta. Aveva nascosto cinquecento metri avanti sul crinale, tra la boscaglia ai piedi degli abeti rossi, una pala rubata dalla stalla del nonno.
Per giorni scavò buche su buche nel costone motoso, vicino al luogo dove era stata rinvenuta la croce di guerra dell’ufficiale.
Siccome la controffensiva aveva preso di mira il paese, coi miliziani asserragliati dentro le case per giorni, la collina smottata non doveva essere stata l’epicentro della battaglia. Giunse a questa conclusione poiché in effetti non riuscì a trovare nulla. Due mesi e iniziò a convincersi di doversi accontentare della medaglia esposta al museo, al cui ritrovamento, diceva a se stesso, aveva comunque contribuito.
Poi un pomeriggio rinvenne davvero qualcosa.
Dapprima uno straccetto di stoffa verde sdrucito e fino fino che la pala aveva rimestato fuori dalla terra; iniziò a scavare con foga, con le sole mani e affondando le unghie nel terreno, finché non cavò fuori un brandello più grande: mezza manica e la parte sinistra d’un giaccone. Nessuna medaglia, ma un nastrino all’altezza del cuore con su scritto III Colonna. Era una divisa da guerra! Cacciò un grido euforico ma subito represso per timore d’essere udito. La giacca aveva anche un taschino; dentro, la foto sbiadita di una faccia lieve e grattata via dall’usura del tempo; ma vi si riconosceva comunque un bimbo con un cappello di lana e un sottile sorriso; sul dietro solo un nome: Martino. Stette qualche minuto a guardarlo provando un’immediata e sconosciuta pena per quel viso. Era il povero orfano del milite? Una domanda che qualcuno di certo avrebbe soddisfatto una volta mostrato con orgoglio il suo reperto al padre, al Signor D’Ambrogio, al direttore del museo.
Così iniziò ad avvertire in petto un frenetico tamburellare, si sentiva importante! Corse al paese diretto a casa del biondo.
“Signor D’Ambrogio, Signor D’Ambrogio!” Sbandierando con orgoglio il giaccone militare, scuotendolo della terra raggrumatasi sopra, ma senza dir niente, indicando solo la collina. L’amico capì subito e l’euforia colse anche lui, voltandosi poi verso il babbo per quella nuova scoperta. Entrambi desideravano che l’uomo raccontasse ancora i fasti della guerra, la sconfitta nobile ed epica. La crudeltà del nemico e l’eroismo dei loro vecchi caduti scordati.
Ma il morto era un soldato semplice. La divisa e il numero di Colonna lo mostravano chiaramente, com’ebbe a chiosare l’uomo. Un soldato gettato come si getta il vento sul monte, crepato come il polpo sulla battigia di sale o come il coniglio sventrato dall’aquila; come il pezzente ai bordi della città e il viaggiatore perso nel crepaccio; la prostituta nella notte di pioggia, svilito come il povero e lo storpio.
“Morto bevendo il fango della sconfitta che ci ha relegati schiavi da cent’anni.”
I ragazzi, restati in principio increduli a quelle parole così aspre, adulte, riuscirono stranamente a provare in fretta un certo rancore verso il disonore dei pezzenti. Il soldatino sbandato e senza lode, caduto non a difesa del paese ma più su, dov’era inutile morire, probabilmente fuggendo, da disertore.
Il paffutello, il moretto, tornò a casa senza dire niente a suo padre che di certo avrebbe sentenziato, come il D’Ambrogio, che di gente simile c’era solo da vergognarsene. Anzi accartocciò il giaccone freddo e lurido del miliziano cacciandolo in un sacco nero da immondizia, con insieme la foto del bimbo, Martino, che fece in quattro.
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