Anna abitava nella via adiacente alla fonte, all’incrocio con la viuzza che porta in Piazza. Delia cinquanta metri sopra. I genitori di entrambe e prima i nonni erano falegnami, con la bottega al crocevia del Duomo, dove si svolta per un chiassino; erano cresciute come sorelle. Quando a fine Novanta il negozio chiuse, i genitori erano ormai vecchi e del resto gli artigiani andavano scomparendo un po’ dovunque in città; ma si ricordavano ancora come da bambine, le mattine d’estate uscissero insieme alle loro mamme per il giro mattutino della spesa: il verduriere da capo alla strada, la panetteria, poi il lattaio. Vicino Piazza la macelleria.
“Apriamo anche noi una bottega.” Diceva sempre Anna all’amica. Erano entusiaste, lo volevano davvero.
Crebbero. Delia entrò a lavorare in banca, Anna si sposò e fece due figli, ma quell’idea però non l’aveva abbandonata; era un tipo romantico, perennemente scosso dal vento della malinconia, del “quando ci si conosceva tutti”, la sua frase preferita.
Ai bambini, nati nei primi Duemila, raccontava ogni sorta di storie su come da ragazzina prendesse ancora le uova da una signora di campagna di cui adesso non ricordava il nome. Il marito aveva uno spaccio.
“Si comprava tutto lì.” Diceva trasognata. I figli neppure l’ascoltavano. Così quando si trovava con Delia al Circolino ne parlavano: dal pane fresco ai lacci da scarpe, dai salumi ai formaggi. E poi detersivi, prodotti dolciari e tanto altro. Il discorso prendeva sempre una piega nostalgica che piaceva a tutti, anche a quelli che conoscevano “la città delle botteghine” solo per sentito dire.
“Erano licenze dove c’era tutto, anche le bombole del gas.” Sosteneva qualcuno.
“Si pagava una volta all’anno, alla fine dell’annata agraria. Il babbo almeno faceva così, segnando in un taccuino.” Raccontava una vecchina che un tempo viveva in campagna.
“Ci si fidava, signora mia.” Interveniva un’altra.
Anna, che pure aveva iniziato quei discorsi, a sentirli era rapita da un fremito e una frustrazione impossibile da descrivere. Tutti erano arresi al fatto che i grandi centri commerciali e i megastore spazzassero via le botteghe, che gli artigiani morissero, che la conformazione rionale fosse ormai perduta.
“Il mondo va così.” Diceva sempre un ragazzo di trent’anni che ogni sera passava dal circolo. “Metalmeccanico in un’azienda con mille euro al mese; come posso permettermi alcune spese? All’ Ipermercato mi conviene.” Diceva sempre sorridendo. Anna non lo sopportava. Delia guardava l’amica con dolcezza.
“Ho sentito dire che in Campania c’è una legge regionale per la tutela delle botteghe storiche.”
“Bah, cazzate.” Diceva il solito ragazzo bevendo qualcosa.
Eppure un giorno si presentò l’occasione. A metà della via fu venduto un giornalaio.
Anna tornò a casa elettrizzata alla notizia e siccome non lavorava supplicò il marito, un tipo premuroso che l’amava molto: l’uomo acconsentì a mettere la quota iniziale.
“Una botteghina! Alimentari soprattutto, ma anche altro. Vedrai che ce la farò.” Gli disse con gli occhi che brillavano.
Comprò la licenza. Poi ci vollero sei mesi per ristrutturare il fondo e “imparare il mestiere”, come diceva a Delia che non vedeva l’ora ci fosse l’inaugurazione; l’amica non aveva lasciato il suo posto in banca per inseguire il loro sogno di bambine, ma mostrava ugualmente un grande entusiasmo. Giurava che uscita di lavoro sarebbe stata fissa lì.
Anna la sera prima dell’apertura era al settimo cielo. Le voci che l’avvertivano di come la crisi avesse frantumato il vecchio sistema economico erano per lei frutto di “cassandre invidiose”. Così quella stessa notte immaginava il suo negozio, “La botteghina di quartiere”: più di un posto dove comprare semplice merce. Un luogo dove socializzare, sentire le notizie, dare voce al pettegolezzo, quello buono s’intende; un luogo dove partecipare alla vita degli altri.
Lei non avrebbe fatto la fine delle saracinesche abbassate con la scritta Vendesi che vedeva nei vecchi angoli della città; botteghe sostituite da negozietti di souvenir, involucri di vecchi vinai, nuovi sportelli bancari, take-away etnici. Ruggine, polvere e malinconia non avrebbero intaccato i suoi sogni.
Il giorno dopo, all’inaugurazione della botteghina c’erano duecento persone. Tutto il quartiere e tanti altri amici della città.
“Ce ne vorrebbero di più di persone così.”
“Era l’ora.”
“Dà respiro a tutta la zona.”
Delia, felice come una bambina, era così fiera dell’amica! Aveva pensato al buffet e parlava parlava di come quel sogno fosse anche il suo.
I tetti arruffati del rione, a guardarli dalla soglia della botteghina! Splendevano di quel rossore che portava ai giorni andati. Delia era avvolta dal romanticismo.
“Questi prodotti poi! Vogliamo mettere?!?” Lo diceva come dovesse comperare tutto.
La giornata finì così, con le due vecchie amiche abbracciate.
Tempi felici dunque; in tanti si fermavano alla bottega (per parlare soprattutto). Era davvero divenuto una sorta di secondo circolo, specie al mattino quando quello rionale era chiuso. Delia passava in pausa pranzo e si faceva fare un panino al salame.
“Come una volta.”
I primi tre mesi i conti andarono in pareggio, dal quarto la botteghina iniziò a perdere. Anna comunque la vedeva affollata, o così le pareva, dunque non era colpa del transito.
“L’affitto è alto.” Provava timidamente a dirle il marito. Ma non volendola ferire la rincuorava. “Il mio stipendio è buono. Posso coprirti senza problemi.”
Anna allora iniziò a pensare a qualche strategia. Poi, dopo tre mesi un nuovo Ipermercato aprì subito fuori porta.
“Sono scandalizzata.” Diceva Delia mangiando il solito panino, seduta su un panchetto impagliato che Anna aveva messo in un angolo a posta per lei. “Come possono preferire la spesa in quel posto?”
“Vedrai che le cose cambieranno. Serve solo la pubblicità.” Rispondeva l’amica.
Delle volte passava l’operaio d’azienda; a fine turno il ragazzo comprava sempre qualche lattina di birra. Anna, che lo considerava un uccello del malaugurio, ci teneva a mostrarsi felice, a precisare come le cose andassero bene.
“Certo, con l’Ipermercato è dura…” Diceva lui.
“La gente vuole la qualità.”
“Ma i prezzi?”
“La gente preferisce fare del bene.”
“Siamo alla carità?” Le diceva scherzando. Anna ne soffriva, lui allora smetteva e passava a dare la colpa alla crisi, sostenendo che se un tempo c’erano i soldi e si poteva fare una scelta, adesso anche la qualità doveva sottostare alle logiche impellenti dell’arrivare alla fine del mese. “E comunque, passati i tempi bui, tutto si aggiusterà.” La chiudeva così per farle piacere, la donna sorrideva fingendo di crederci.
D’inverno la botteghina si fece deserta. Dieci mesi, le persone erano poche. Sì, i soliti affezionati, i dieci che la sera vedeva al circolo; compravano qualcosa, ma la spesa la facevano altrove, era evidente. Delia propose anche una petizione per sensibilizzare il Comune.
“Il Comune? Ma il mercato funziona così.” Diceva il ragazzo mezzo avvinazzato.
Anna non si dava per vinta, si alzava all’alba, puliva tutto in modo maniacale, cercava di ingraziarsi i fornitori per avere uno sconto, ma non poteva abbassare i prezzi più di tanto. Poi l’affitto, la crisi, l’anonimato di un quartiere che, lo capiva adesso, era cambiato davvero.
Aveva immaginato la fine del primo anno con una grande festa, invece fece un piccolo evento, vennero in pochi. C’era l’operaio, altre tre amiche, il marito col suo sorriso triste e Delia, che però arrivò tardi.
“Beh, stiamo bene così, tra noi.” Disse Anna col groppo in gola.
Ma la sera a cena, parlando coi figli e con l’uomo, conti alla mano capì che erano sette mesi che era in perdita. Lui non osava dire niente, fortuna che lo disse lei:
“Devo chiudere.”
“Aspettiamo un po’, magari col ritorno della primavera le cose cambieranno.”
“Non va.” Disse ormai risoluta, raccontando poi in modo distante un aneddoto vago, di quando andava da piccola alla bottega del babbo. Aveva gli occhi gonfi di pianto.
L’ultima settimana non rivelò a nessuno che avrebbe chiuso. Gironzolava per il negozietto toccando con la mano le conserve di pelati, i panni asciugatutto, raschiando con le unghie il vetro nel banco affettati. Entrava qualcuno, lo trattava male. Anche con Delia in pausa pranzo stavano zitte. L’unico che la faceva ridere, strano a dirsi, era il ragazzo: alle sei entrava e beveva le sue due birre seduto sul panchetto di paglia. Le raccontava qualche sua disavventura in azienda, di questo o quel “quadro” che avrebbe scapato, come diceva. Lei rideva pensando che in fondo ognuno avesse la propria pena.
Pochi giorni prima di chiudere poi suo figlio ruppe il faretto a muro mentre litigava col fratello lanciandosi alcuni oggetti.
Non voleva ma finì coll’andare all’Ipermercato a comprare il pezzo di ricambio. Quelle luci l’abbagliavano. Era appena fuori città, ma le sembrava d’essere in una metropoli. Lo spazio interno era assurdo: un piano addirittura per i bambini, qualcosa tra il commerciale e il ludico.
“Com’è cambiato tutto.” Pensando ai suoi giochi in strada. Eppure era pieno di persone. E poi un negozio di scarpe, di telefonia, una pasticceria, fino al mercato vero e proprio.
Entrò promettendosi di prendere il faretto e uscire, ma non poteva non notare i prezzi, così bassi rispetto ai suoi! Scorreva tra le facce della città, volti visti e rivisti. Era disperata. Girò l’angolo dei prodotti intimi e urtò un carrello colmo di spesa su cui per poco non franò.
“Mi scusi.” Disse Anna alzando la testa.
Delia la guardò con gli occhi lucidi.
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