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In Società

Joker: il male è sempre sociale

21 Ottobre 2019

Lode al Joker che uccide? Che inconsapevole infiamma un mondo di reietti? Lode al criminale iniziatore di devastazioni cittadine?

Emblematico il calore popolare che, esulando dalla mera esperienza estetica, sembra ricevere il film, anche solo nell’appoggio al personaggio interpretato – magistralmente e con non pochi sacrifici – da Joaquin Rafael Phoneix.

In effetti Joker, che lo si voglia o meno, è un film a tutti gli effetti politico, un film che solo trent’anni fa sarebbe stato relegato nel recinto d’ambientazione distopica e para-fantascientifica: “la fine della Storia” (Francis Fukuyama) del resto annunciava progresso e benessere infinito; certo c’era poco posto per considerazioni contemporanee altre piovute dall’immaginaria Gotham targata 1981.

Ma la Storia, ahimè per noi e per i corifei di un mondo meraviglioso quanto inesistente, è continuata. Le privazioni delle grandi metropoli del Capitale sono ormai sotto gli occhi di tutti, la precarietà esistenziale si è impadronita anche del Primo Mondo, incapace di risposte concrete che esulino dal continuo piagnisteo progressista, la velleitaria volontà di ripristinare i bei tempi dell’accumulazione post-bellica; l’idea impraticabile di riportare crescita equa, occupazione stabile e servizi sociali ormai smantellati, tragedia che nel film è soggiacente all’acuirsi del conflitto e della vendetta dei singoli.
De te fabula narratur, ci sembra dire la spettacolare pellicola narrante una società davvero impensabile pochi lustri or sono, ma che invece oggi avvertiamo quanto mai prossima.

Joker non a caso è già stato stigmatizzato per la pericolosità dei suoi effetti sociali da buona parte della critica: “un’idiozia irresponsabile” (Time), “un grido tossico di battaglia per l’autocommiserazione degli incel” (IndieWire), mentre RogerEbert.com parla addirittura di “spazzatura perniciosa”. Si è vaneggiato infine di messaggi potenzialmente razzisti in riferimento alla scena di apertura, dove il povero clown è pestato da alcuni balordi di colore; oppure c’è chi lo vorrebbe portatore di un pericoloso modello per terroristi di estrema destra; una visione sommaria (e in malafede) che vuol vedere nel disadattato Arthur Flech il reietto bianco più che il reietto sociale, quale invece a tutti gli effetti è.

Al tutt’altro indispensabile avviso di chi scrive, invece, vi è la corrispondenza fra l’arte cinematografica e la più o meno consapevole traslazione sociale (i difensori del migliore dei mondi possibile sono ovviamente dispensati da tale analisi), laddove il film indica chiaramente i responsabili di un male solo all’apparenza individuale. Non solo: la “scandalosa” epopea del Joker di Todd Philips mette in crisi anche ogni narrazione manichea delle gesta, qui solo lambite, dell’eroico Batman; un formato reazionario dove il più ricco della città, assieme all’immacolata polizia, sarà il solo in grado di proteggere la comunità da pericolosi “criminali”.
Così la solo accennata uccisione dei genitori del futuro uomo-pipistrello assume qui l’aspetto di pura vendetta sociale e non di deprecabile crimine individuale a scopo di rapina, come invece mostrato nel celebre lungometraggio di Tim Burton.

Siamo certo di fronte a  un antieroe, a un criminale, a un disadattato incendiario spinto a gesti folli; eppure c’è un’immediata empatia verso Arthur, vittima di ingiustizie, “vigilante” inconsapevole di un mondo di ultimi (perenne peraltro, finché resteranno i vigenti rapporti sociali) che chiede aiuto e che, inascoltato, può far calare la propria collera.

L’ultimo appunto, il povero, il marginale, il diseredato qui si fanno un tutt’uno col malato mentale. Joker è addirittura un Mc Murphy (Nicolson in Qualcuno volò sul nido del cuculo) migliorato, poiché ha la forza di allargare a ogni ambiente sociale lo spettro della repressione.

Arthur si mostra folle, ma (o proprio per questo) completamente umano nei propri bisogni, infantile e sperduto nelle richieste di ascolto; dall’assistente sociale al presunto padre Thomas Wayne. Finché non prende definitivamente consapevolezza dell’isolamento e della cattiveria di alcune maschere umane ben più profonde di quella sua, clownesca: Murray Franklin su tutti, che lo vuole in bella mostra per deriderlo, che lo dà in pasto a un pubblico inebetito che necessita del diverso, del marginale, di ciò che sta ancora più sotto per giustificare una misera condizione esistenziale.

Fare l’apologia del personaggio Joker non significa solidarizzare in toto con le sue drastiche, individuali e istintive risposte. La violenza cieca del singolo è quanto mai nociva e fortemente reazionaria per qualunque causa emancipativa che si vorrebbe globale. Così come la jacquerie vandalica di fine pellicola. Eppure, diceva Lenin – uno che di sommosse se ne intendeva – “colui chi sogna una rivoluzione pura non la vedrà mai”. Sta difatti a chi ha un decente bagaglio di coscienza politica e formulazione teorica infilarsi nelle crepe del disagio per disarticolare il mostro sociale che oggi più di ieri relega all’impotenza i subalterni.

E’ del resto il focolaio-mondo che ci mostra ormai ogni giorno rivolte sociali generalizzate che nascono qua e là per motivi parziali; dall’America Latina alla Francia, dal Libano al Nord Africa alla Catalogna, da Honk Kong all’Iraq. Non c’è (ancora) un filo conduttore globale animato da un progetto rivoluzionario; insostenibilità ambientale, rincaro dei prezzi, mancanza di generiche libertà, caro vita insopportabile: ancora tutto è spurio, parziale e costretto in fiammate temporanee che sempre di più però si fatica a sopprimere.

Joker, il film, ha la fortuna (o semplicemente l’inevitabilità sovrastrutturale) di fornirci l’arte come specchio di una struttura sociale, la nostra, affatto lontana dalla distopica Gotham City.

Siamo di fronte a un mondo indifendibile che ha interesse estremo nel propinarci ciò che De Niro – Murray cerca disperatamente di vendere a un pubblico inebetito, commentando le tragedie metropolitane dallo scranno del suo show televisivo. Ovvero la violenza degli invidiosi, delle persone “meno fortunate”, le azioni cieche e criminali contro gli “innocenti” rampolli di buona famiglia in cerca di semplice “svago” notturno.

Ma non è forse il mondo contemporaneo a innestare sin dagli albori della vita competizione senza regole, penosa ideologia del merito e ulteriore senso di colpa in chi “non ce la fa”? Non è forse la società attuale, storica e plasmata da determinati rapporti sociali, che vira invece sulla fatale volontà del singolo, ora svogliato, ora incapace, bamboccione, invidioso, inadatto, disadattato, problematico e quant’altro? Il solo responsabile nel non riuscire ad elevarsi nel tremendo concetto classista di “scala sociale”. La società non esiste, dicevano dopotutto ai tempi in cui si prospettava quel futuro radioso mai giunto. Molti ci hanno creduto, salvo poi risvegliarsi in un brutto sogno dove Gotham rischia di essere la realtà, non solo per “malati mentali” alla Arthur Flench.

Il film va dunque considerato un capolavoro materialistico figlio del tempo presente, con qualche ovvio limite che non riesce a occultare i molti meriti. Del resto nasce per avere una coerenza cinematografica e un riscontro estetico, non per essere un manifesto politico. Sta a chi vuole trarre dall’opera d’arte qualche lezione emancipativa, traslare il messaggio fondamentale che ci propone: niente natura umana perversa, nessuna sfortuna, bando a ogni lettura individuale: il male è sempre e solo sociale. E la risposta, che non può ovviamente arrivare dall’emulazione della maschera joker deve e può essere collettiva.

Sempre per chi ha interesse a cambiare lo status quo, si capisce.

 

 

 

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Credo che l’uomo viva nel bisogno di raccontare e ascoltare storie: la propria, quella degli altri, quella di un dio. Così da sempre, forse per sempre. Probabilmente il non-senso della vita è racchiuso nel paradosso della scrittura: possedere estrema chiarezza ed estrema finzione al tempo, così che nelle sue affascinanti acque d’inchiostro non ci si stanchi di nuotare. Almeno a me fa questo effetto

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