“Farai meglio a prestare attenzione, a non piangere,
a non mettere il broncio e ti dirò il perchè:
Babbo Natale sta arrivando in città!”
‘Santa Claus is coming to town’
Il menù del cenone di vigilia non era ancora deciso.
Solo al termine dell’assemblea del quindici dicembre, al punto “varie ed eventuali” fu stabilito che ognuno portasse qualcosa da casa. L’importante era comunque che la festa fosse nella grande sala della produzione, il capannone centrale della Relston-Energy di Monsunni.
Quando a inizio mese fu votato per l’occupazione, fu stabilito di trascorrere in fabbrica anche la viglia di Natale, un gesto simbolico ma di grande importanza, dissero. Tutti gli scettici infine furono convinti, anche perché di fronte ai sessanta esuberi “proposti” l’occupazione era l’ultima carta da giocare. Col passaggio dell’anno prima alla nuova proprietà in principio sembrava profilarsi un futuro di ripresa per la vecchia industria, luogo storico della Monsunni operaia. Rilancio sul mercato, più posti di lavoro e tanto altro. Invece ormai era da ottobre che tutto era fermo, stipendi compresi. Gli enormi macchinari erano immobili e i pezzi semilavorati stipati nei capannoni. Eppure i turni c’erano ancora e a copertura delle ventiquattro ore, come si lavorasse a ciclo continuo. Erano stati i lavoratori a stabilirli, con organizzazione ferrea e drammatica disciplina.
“Come si può chiudere da un giorno all’altro?”
“Impossibile non si faccia niente per la perdita di tanto patrimonio industriale e tecnologico.”
“Continuiamo a lavorare per impedire che vengano smontati gli impianti e trasferiti altrove. Si parla dell’Est.” Avevano detto ai giornalisti accorsi quando era divampata la notizia della delocalizzazione.
Anche il paese si era dimostrato discretamente solidale con gli operai, almeno in principio. Del resto, delle ventimila persone di Monsunni, almeno un migliaio tra lavoratori e famiglie erano legati alla fabbrica.
Dal venti dicembre, incredibilmente, dalla mattina alla sera iniziò a serpeggiare un cauto ottimismo poiché qualcuno del paese, impiegato al Comune e passato in fabbrica per portare qualche microonde e una risottiera a un parente, per il cenone, aveva riferito come si vociferasse sempre più insistentemente del rilevamento dell’azienda da parte di un imprenditore locale. Convocato il sindacato verso l’ora di pranzo del giorno stesso, i dirigenti confermarono la notizia, tra le grida esultanti degli operai.
“Per forza! Era ovvio andasse così – dicevano i vecchi impiegati – siamo un patrimonio nazionale.”
L’azienda difatti aveva convocato il sindacato stesso, in principio ostile all’occupazione, per un ultimo tavolo di trattativa fissato due giorni dopo: comunicazioni importanti. Era la notizia che attendevano tutti.
“Ci dicono che tutto andrà bene, ma non ci credo”. Continuava a ribadire un ragazzo assunto da un paio d’anni. Un morettino secco secco, dal viso smunto, tutto occhi e che chiamavano Bisto. “Se è finita è finita. Non possiamo farci niente. Pensate che interessi a qualcuno se stiamo qui anche a Natale? Che importi al paese? Funziona così.”
Alcuni lo insultavano perché dicevano che così facendo infiacchiva il morale di tutti.
“Cerco solo di essere realista.”
L’assemblea sindacale del ventidue però, lungi dall’annunciare un nuovo passaggio di proprietà riferì l’infruttuoso tavolo con l’azienda: si andava a chiudere. Il rappresentante di sigla comunicò a malincuore che le voci riguardanti un nuovo acquisto erano appunto solo voci. L’accettazione degli esuberi, circa un terzo degli occupati, era una condizione base. Non si poteva fare altrimenti. E comunque in primavera vi sarebbe stato lo smantellamento completo.
Inizialmente ci fu un borbottio sommesso, poi quando il sindacalista balbettò le proprie scuse, il morettino secco secco, Bisto, gli si avvicinò sorridendo e avventandogli un pugno sul naso.
Da lì il parapiglia, tutti a urlare, a inveire. I più vecchi tentavano improvvisate orazioni per “fare qualcosa”. Bisto, ormai visto come caporione, se la prendeva col sindacato, “perennemente sulla difensiva e connivente”. Altri dicevano che Monsunni avrebbe dovuto mostrarsi più solidale. L’ala più intransigente invece, composta da una cinquantina di operai ben disciplinati e che infine prevalse, propose l’occupazione a oltranza.
I giorni dopo i capannoni sembravano abitati da mortiviventi. Venne qualcuno dal giornale cittadino per qualche intervista ma regnava una rassegnazione definitiva che riuscivano a nascondere malamente. Al cenone di vigilia, comunque confermato per “dare un segnale”, c’erano segnate sempre meno persone. Dalle duecento iniziali (la quasi totalità dei lavoratori) il numero si era dimezzato. “Tanto ormai che possiamo fare?” Dicevano i più. “Almeno passiamo il Natale coi nostri cari.”
Il dirigente sindacale invece, dopo quel pugno incassato, si era segnato con tutta la famiglia e continuava a dire agli operai di come le cose potessero essere ancora in divenire.
“Probabilmente riusciamo a strappare un nuovo tavolo di confronto per l’inizio del nuovo anno.”
“Aspettiamo il miracolo di Natale?” Era la nota tristemente sarcastica di alcuni.
“Forse c’è davvero qualche speranza.” Dicevano i vecchi impiegati, lì da oltre vent’anni e che non riuscivano a credere alla chiusura.”
“Continuiamo a fare il presidio!” Sosteneva il gruppo più intransigente. Anche il sindaco del paese assieme ai partiti storici si era mostrato solidale dopotutto.
Bisto invece stava zitto. Veniva tutti i giorni e rimaneva oltre il turno a sentire i compagni parlare e parlare. Ormai era rassegnato.
La sera della vigilia c’erano in tutto una ventina di operai. La tavolata fu ugualmente adibita nel gran salone dove però le parole rimbombavano data la poca affluenza. Il sindacalista cercava di tirare su il morale con qualche canzoncina natalizia che un vecchio quadro accompagnava con una chitarra portata da casa.
C’era anche Bisto. Strano a dirsi ma era di ottimo umore e rilasciava ogni poco qualche battuta sprezzante sulla loro condizione.
“Vedi cosa tocca fare? – rideva – Essere tristi perché non possiamo più essere schiavi.”
“Schiavi? – sbottò un vecchio – E’ per questo dopotutto che le cose vanno male. Non c’è più l’etica del lavoro. Io sono stato qui tanti anni e con dignità.” Il sindacalista annuì ma sommessamente, temendo una nuova sfuriata del giovane che invece si limitò a scuotere la testa. Poi prese anche lui la chitarra strimpellando qualcosa.
Alle undici e mezzo infine salutò tutti.
“Beh, almeno ci abbiamo provato. E comunque stanotte è tempo di regali.” Disse laconicamente. Uscì dal capannone, prese l’auto e fece il chilometro che distanziava la Relston-Energy dal centro di Monsunni.
Parcheggiò in una viuzza adiacente alla piazza centrale dove intanto si assiepava la moltitudine di famiglie per la messa di mezzanotte. Quelle grida entusiastiche, l’atmosfera di fraternità, le risa dei ragazzini, l’allegria; tutto adesso gli pareva assurdo e allo stesso tempo euforico, tanto che iniziò a fischiettare Santa Claus is coming to town, suonata poco prima in fabbrica.
Quando i rintocchi delle campane si levarono alti nella notte di festa tutti ormai erano all’interno della chiesa per la funzione, si udiva il coro accompagnato dal grande organo. La piazza era deserta ma illuminatissima dalla collana di luci che cingeva l’abete di Natale posto al centro dello spiazzo e dalle luminarie a irrorare il grande Presepe a fianco della chiesa, il solito di ogni anno con le statue a grandezza d’uomo.
Bisto aprì il bagagliaio dell’auto rovistando all’interno, poi si incamminò tranquillamente verso la capanna del Presepe fischiettando ancora quella vecchia canzoncina natalizia… “Babbo Natale sta arrivando in città”.
In mano le taniche di benzina.
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