Manuel aveva un sogno: portarsi a letto Elisa.
Il Fabbri, Manuel, andava a scuola al Liceo, diciott’anni al tempo. La vedeva ogni mattina attraversare l’androne del Ginnasio col solito gruppetto di amiche. Lui sostava al colonnato davanti alla segreteria e la fissava. Lei ovviamente se n’era accorta e soffocava alcune risatine stupide senza guardarlo, a posta. Nel gruppetto c’era una ragazza di un anno più grande che si faceva chiamare Judy; Manuel c’era amico poiché la famiglia del ragazzo aveva un forno dove lei si serviva.
Un giorno d’ottobre pioveva, Judy aspettava l’autobus ai capannoni fuori da scuola. Non c’era quasi nessuno lungo la strada, l’acqua batteva le grondaie scrosciando sui portoni, lei si riparava sotto una piccola balaustra mezza distrutta. Il Fabbri, che di solito andava in motorino, arrivò poco dopo; passarono cinque minuti ed ecco arrivare anche Elisa. Finalmente soli, o quasi, pensò lui. L’amica ci si mise a parlare. Come fa a conoscerla? Poi gli si rivolse:
“Sali in tram con noi?”
Durante il tragitto le due si misero sui sedili in fondo. Lui stava invece due file davanti e ogni poco si voltava cercando un modo per interagire.
“E così ti piace?” gli disse Judy una volta scesi. Non rispose.
Tre giorni dopo l’amica era malata e alla fermata del tram Manuel si ritrovò da solo con Elisa.
Era zitto, fremeva, piuttosto impacciato; lei lo stesso e questa cosa lo stupì, lui la credeva… la credeva donna. Durante quella settimana in cui tornarono a casa insieme, il Fabbri prese sempre più fiducia e al giovedì erano entrati in confidenza. Il sabato addirittura si diedero appuntamento per andare al cinema. In sala davano un film d’avventura che nessuno dei due seguiva. Si studiavano con la coda dell’occhio, smaniando sul bracciolo del sedile. A metà del secondo tempo Elisa prese la mano del ragazzo e se la mise su una coscia. Uscirono dal cinema in fretta, diretti al magazzino del forno dei suoi.
Le settimane seguenti Manuel s’innamorò. L’andava a prendere in motorino a casa sua in campagna e in breve tempo fece amicizia col babbo Renzo, uomo mite che stravedeva per la figlia. Quando andava lì, Elisa era perennemente in ritardo, così nell’attesa faceva sempre una giratina assieme al padre: dalle vigne al casolare e allo stabbio; Renzo dava qualche carezza a Ciocco, un nomignolo che Elisa da ragazzina aveva affibbiato a un maiale divenuto enorme. A Manuel faceva letteralmente schifo ma siccome Renzo gli diceva come ormai fosse uno di famiglia, “l’unico che non possiamo lavorare”, allora fingeva gli piacesse.
Passò un anno. Manuel stava avviluppato a quella relazione come fa l’edera sui mattoni; non capiva più niente, per sua stessa ammissione. Un giorno che aveva il motorino rotto ed era in tram con Judy (Elisa non c’era), questa di punto in bianco principiò un discorso strano, velato:
“Ma ti piace così tanto? Perché a scuola girano strane voci, sai.”
“Ma cosa dici, Giulia?” Chiamandola per nome dopo chissà quanti anni.
“Non lo so eh, è una sensazione; fai finta di niente.” Lei divagò e Manuel a dire il vero le dette poca importanza, anzi immaginò fosse gelosa. E poi tutte quelle visite al podere, col babbo Renzo a dirgli quanto la figlia fosse innamorata… che stupidaggini, pensava. Invece Judy aveva ragione e in capo a un mese e mezzo le cose precipitarono in modo inaspettato: lei lo lasciò, aveva un altro. Manuel voleva morire. Metà giugno, gli ultimi giorni di scuola; Elisa adesso neppure prendeva più il tram con loro,
Il telefonino perennemente spento, il Fabbri non aveva pace. Un attimo era travolto da ondate di
romanticismo e voleva riconquistarla con qualche gesto eclatante.
“Non essere penoso” L’ammoniva Judy. Altre volte invece faceva finta di niente. Agli amici
diceva che non gli importava nulla, ma si isolò da tutti.
Verso il venti d’agosto però giunse una telefonata inaspettata. Era Renzo, si diceva dispiaciuto di non vederlo più al casolare. Secondo il vecchio quella rottura era una cosa passeggera.
“Vedrai che per s’è presa una cotta, di quelle da ragazzina. A breve lo lascerà.”
“Lo spero signor Renzo. Vorrei tanto rivederla.” Piagnucolava, ragazzino anch’egli.
“Senti: perché a settembre non vieni qui a vendemmiare? Almeno ci parli. Le dirò che abbiamo bisogno di gente, ed è vero comunque; e che ti ho chiamato perché sei uno in gamba.”
Manuel era al settimo cielo e poi un lavoretto prima del rientro a scuola era l’ideale; si convinse
così.
Al casolare iniziò la vendemmia. Il primo giorno il Fabbri, temendo di vederla, stava a capo basso, tagliava la zocca d’uva e la metteva nel cestone. Dopo la passava al fattore e da questi nel camion. Così per una giornata e poi un’altra e un’altra; al quarto giorno però comparve Elisa: in fondo al filare, piena di luce, coi calzoncini corti e i capelli neri raccolti sulla nuca.
“Che ci fai qui?” Disse venendogli incontro.
“Vendemmio per tuo padre, non te l’ha detto?” Cercando d’essere tranquillo.
“Lo sai che sto con un altro, Manuel.”
“Lo so. E lo sapevo da prima; ma, ti ripeto, lavoro per tuo padre, mi ha chiamato lui. Chiediglielo se non ci credi.” Avrebbe voluto piangere, ma non cedette e tornò a lavoro.
I giorni seguenti la spiava da lontano; lei camminava sul sentiero sterrato facendo sempre il percorso fino a Ciocco, il maiale di famiglia. Per un po’ resistette, ma quando Elisa smise addirittura di salutarlo, un mattino la prese da una parte per una scenata patetica su quanto fosse ancora innamorato: non servì a nulla.
A fine vendemmia fu fatto un gran cenone al casolare, come da tradizione. Renzo invitò tutti: un vecchio fattore della zona, qualche contadino rimasto, i gestori dei vicini agriturismi, gli stagionali: studenti come Manuel e immigrati che avevano lavorato a chiamata. Voleva ricreare quell’atmosfera comunitaria di quando era bambino e c’erano ancora i mezzadri. Così diceva. Manuel Fabbri, credendo che quella fosse l’ultima sera per riconquistare Elisa, si vestì di tutto punto.
L’aia era piena d’addobbi, con le lampadine sui fili e questi tesi da muro a muro; c’era una sfilza di bottiglie di vino su un grande tavolo e alcune pignatte accese fin sulle scale di casa. In un angolo era stato addirittura messo un piccolo recinto dove stava Ciocco. Ogni anno era così, una sorta di routine, Elisa e il babbo dicevano portasse bene; gli dipingevano sempre sulla groppa alcuni segni vinaccia; “roba propiziatoria”, commentava il vecchio ridendo.
Tutti erano già a tavola quando comparve anche la ragazza. Manuel ebbe un fremito, sentì un bisogno estremo di alzarsi ed andarle incontro, ma fu frenato dalla visione dell’altro. C’era anche lui! L’altro. Eccolo finalmente. Secco secco, il mento prominente, gli zigomi spigolosi e gli occhi infossati. Come può stare con questo essere? Si dannava, intravedendo la propria definitiva disfatta.
A tavola ci si sollazzava con canzoncine contadine vecchie di un secolo, ridicole e che avrebbero stufato chiunque, pensava il ragazzo. Renzo dettava i tempi della cena e raccontava ogni poco storielle salaci dove in ognuna sbucava un aneddoto sul maiale e su quanto la sua bambina, come ripeteva, lo amasse. Manuel era folle, gli occhi rossi, schiumando di rabbia per lei e quelle storielle grottesche e disgustose. L’altro, “il secco”, invece ne rideva e subissava Elisa di sorrisi e carezze. Le luci, i canti, il vino, il viso di lei, quei grugniti insopportabili: tutto stordiva il Fabbri. L’aveva persa definitivamente.
Cosa ci faccio qui? Chi è questa gente? Percepiva la realtà distante e tutta quell’atmosfera
di festa lo nauseò. Da ultimo vide i due innamorati baciarsi sulla bocca mimando malamente un
certo pudore; poi la sentì dire:
“Tesorino mio.” Lo ripeteva in continuazione; ora ci chiamava il secco, ora il maiale per
fare la scema.
Manuel si alzò e senza che nessuno lo notasse andò al motorino prendendo la strada di casa. Lungo lo sterrato vedeva le lanterne dell’aia sempre più distanti confondersi col palpito delle stelle. Il cielo poi si inscurì di nubi e lui ripensò a quel giorno di pioggia quando l’aveva conosciuta; iniziò a piangere. Ogni immagine della propria sconfitta gli si palesava innanzi con una forza inaudita, tanto che pian piano lo sconforto e la disperazione lasciarono il posto al risentimento e alla rabbia. Si fermò.
All’alba Renzo scese con la figlia nell’aia per rimettere a posto sedie e addobbi della sera
prima. C’era ancora Ciocco nel recinto e dormiva di fianco a una bacinella rovesciata che l’uomo non ricordava d’aver messo. Aveva alcuni segni sul dorso, ma diversi da quelli propiziatori della festa. Si avvicinarono per capire meglio.
Il maiale giaceva a terra sgozzato malamente, in una pozza di sangue misto al vino usato per stordirlo.
E con scritto su di un fianco: ‘tesorino mio’.
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