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I gabbiani

19 Dicembre 2017

L’amavo in modo incredibile, credevo perfino d’essere l’unico al mondo rapito da simili sentimenti. Non è ridicolo immaginare che altri non provino tali trasporti? O che la tua storia sia unica? Non sono ridicole quelle stesse emozioni? Come durante una bevuta, quando il tuo ragionamento, i tuoi gesti, il mondo attorno appare logico e lineare. Solo al brusco e dolorante risveglio ci si accorge della grottesca farsa ove si era immersi. Nell’amore non accade lo stesso?!?

Paola. Il suo nome affollava insistente ogni mio pensiero ed era il primo sussulto del mattino, l’ultimo orizzonte sulla soglia del sonno, alla sera.
Ora, sarebbe importante raccontare per intero la nostra storia? Come ci incontrammo a un’anonima festa nella villa di Giulio vicino alla costa, i pochi amici che ci introdussero e perfino le camminate nei giorni seguenti, le corse sul promontorio travolte infine dalla passione. Sarebbe inutile, piuttosto.
Ogni relazione nasce identica e l’amore possiede un solo tronco; discettando della fioritura di un insignificante ramoscello ricorderei solo cose banali e piene di noia. Basti sapere che quel sentimento fu così intenso inizialmente da farci isolare dal mondo. Non lavorando, lei mi attendeva in casa, io di turno a un piccolo autolavaggio di periferia. Una volta rientrato non uscivamo, mangiavamo poco; stavamo perennemente a letto in effetti. Questo il primo anno.

Poi vennero Giulio e Carolina, i nostri unici amici.
Furono lo spiraglio per uno scampolo di vita sociale dopo quei mesi di “reclusione”; al principio eravamo recalcitranti ai loro continui inviti: cene fuori, cinema, festicciole alla loro villa dove ci eravamo conosciuti; ben presto però trovammo quella compagnia piacevole. Addirittura Paola, di una dolcissima introversione, riusciva ad aprirsi del tutto solo quando pranzavamo tutti e quattro insieme; con me capitava invece si estraniasse in prolungati silenzi. Amava con tutto il corpo, ma avevo il sospetto che ciò la scuotesse dalle fondamenta mi fosse in qualche modo precluso.
Del resto in quel primo anno di vita la cosa più intima confidatami era stato il suo amore per i gabbiani, poiché da ragazzina andava con suo fratello, adesso chissà dove, sul promontorio sopra il porto, osservando quel volo sui faraglioni e sopra le linee d’azzurro e spuma che increspano l’oceano. Un ricordo poetico che la rasserenava, tanto che avrebbe voluto che l’uomo della sua vita condividesse con lei questo amore. Diceva che al “momento giusto” si sarebbe fatta un tatuaggio su di un disegno stilizzato schizzato proprio dal fratello in un pomeriggio d’estate. Non potendoselo fare con lui – non voleva se ne parlasse e di certo non viveva in città; forse era morto? – ero sicuro che l’avrebbe chiesto a me; io sarei stato “l’uomo del tatuaggio”; dunque della vita.

Il secondo anno della nostra storia fu identico al primo per intensità, eppure quando uscivamo con Giulio e Carolina, a me sembrava fossimo anche più felici. Forse perché i due vivevano delle stesse nostre passioni, dello stesso amore. Di certo a tutti e quattro piaceva quell’esistenza spensierata; la grande villa dove abitavano ci permetteva di trascorre splendide e interminabili giornate; in piscina o alla spiaggia privata. Il fine settimana fissi al piccolo campetto da tennis adiacente all’abitazione. La brace alla sera sotto il portico di casa.
Addirittura la seconda estate ci trasferimmo da loro.
Avendo il piano di sopra della villa completamente disabitato, nell’attesa di destinarlo ai figli, come ripetevano baciandosi, ci invitarono a star lì per tutta la stagione. Il nostro attico in centro era piccolo e accettammo di buon grado; accadde quasi impercettibilmente, ma fu come avessimo sempre più bisogno della loro compagnia. In più Paola, disoccupata, era normale preferisse stare alla villa.
“Nel nostro nido d’amore sono sola, mi annoio.” Diceva ridendo.
Durante il giorno aveva così modo di trascorre il tempo coi due, che non avevano orari fissi a lavoro. Quando la sera tornavo dall’autolavaggio mi accoglievano il più delle volte con un piccolo aperitivo che prendevamo nella terrazza affacciata sul mare.
La spiaggia ormai deserta al tramonto, il sole rosso e la pace delle onde erano la cifra della nostra vita perfetta. Io ero innamorato, nient’altro.

Un giorno poi, lei morì.
Con la stessa violenza con la quale era entrata nella mia vita se ne andò. In un pomeriggio di pioggia settembrina, Paola sbandò con l’auto finendo addosso a un autocarro. Ed era morta.
La vidi solo ore dopo ripulita dal tanato-estetista; era rilassata e splendida. L’uomo, un signore alto e dai lineamenti duri mi chiese come volevo fosse vestita, ma le sue parole erano ancora più assurde e lontane di quella morte; vedevo solo il profilo del corpo in un sottilissimo panno verde stiracchiato e che le lasciava fuori i piedi. Mi sedetti nell’anonimo stanzone mortuario a osservare il lavoro di rifinitura dell’uomo, fissando le dita minuscole di Paola e quelle vene verdissime dei piedi, sempre più in evidenza mentre la pelle sbiancava.
Quel tatuaggio poi.
Lo scorsi appena dietro l’alluce e guardai meglio, alzandomi, avvolto in un torpore penoso e indescrivibile. Lo fissai: i gabbiani stilizzati e identici al disegno del fratello che avevo visto l’anno prima. Perché non mi aveva detto niente? Avrei voluto farmelo anche io, lei me l’aveva fatto capire!
Eppure, nel degrado della morte quel piccolo disegno mi parve un nonnulla, anzi un tenue frammento vitale di una persona amata; in me si rafforzò l’idea che probabilmente il fratello era davvero morto e che Paola avesse avvertito il bisogno di farselo da sola. Piansi e risposi automaticamente in merito alle disposizioni del funerale.
Il giorno dopo fu seppellita. Fine. Erano presenti alcuni conoscenti, i miei genitori, Carolina e Giulio avvolti in un inconsolabile pianto.

Stetti recluso per mesi interi nel mio attico, uscendo solo per andare all’autolavaggio; quando infine il lutto si fece sopportabile tornai da loro. Non vi avevo messo piede da quel giorno, né avevo più percorso la strada dell’incidente; Carolina però insistette così tanto da costringermi ad accettare un invito a cena. Credevo saremmo sprofondati da subito nella tristezza, invece bevemmo molto sin dall’aperitivo cosicché fummo rapiti da un’allegria malsana, quasi incresciosa e che ci portava a ricordare tutto di quell’estate senza alcuna apparente sofferenza. Ridevamo del mondo e della morte. Ridevamo come se Paola fosse lì, svuotando in suo onore una, due, non ricordo quante bottiglie di gin.
A mezzanotte Carolina s’addormentò nel divano ormai spossata. Con Giulio parlammo ancora un’ora o due; ridemmo e infine, come logico, ci sciogliemmo in un lungo pianto.
Finché lui, non reggendosi più in piedi farfugliò qualcosa; la serata era finalmente conclusa e lo accompagnai in camera. Anzi lo caricai in spalla tanta era la sbornia, gettandolo a peso morto sul letto. Era talmente sbronzo che mi toccò cambiarlo; via le scarpe, i pantaloni, i calzini. E cos’era? Cos’era? Piccolo, minuscolo, che un lembo delle mutande adesso scopriva… indietreggiai.
“Carolina!” Grugnii tornando in salotto, barcollando a mia volta. Si stirò stravolta di sonno, smozzicando poche parole.
“Ah, quello sull’inguine? Un tatuaggio. L’ha fatto quest’estate; credo sia una sorta di porta fortuna o roba simile.” Sprofondando di nuovo sul divano.

Sentivo affossarmisi gli occhi sotto la fronte, chiudendosi, gonfi di pianto, finché non fissarono un tremolio argenteo proprio sul tavolo di fronte. Afferrai il tagliacarte e tornai in camera da Giulio. Poi ricordo di non aver guardato.

 

 

 

https://www.youtube.com/watch?v=UXBPEA-h2Zo

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Credo che l’uomo viva nel bisogno di raccontare e ascoltare storie: la propria, quella degli altri, quella di un dio. Così da sempre, forse per sempre. Probabilmente il non-senso della vita è racchiuso nel paradosso della scrittura: possedere estrema chiarezza ed estrema finzione al tempo, così che nelle sue affascinanti acque d’inchiostro non ci si stanchi di nuotare. Almeno a me fa questo effetto

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