E il Poeta, che è avvezzo alle tempeste
e ride dell’arciere, assomiglia in tutto al principe delle nubi: esiliato in terra,
fra gli scherni, non può per le sue ali di gigante avanzare di un passo.
Charles Baudelaire
Il poeta è un lanoso agnello restio alla tosa. Arranca e arpiona la vita, e tira, tira la morte a sé, piagnucolante di sogni. Crede di far pena e stupire al tempo di quello strazio.
Non gli duole l’àncora che lo relega, poiché più orrenda è la vista del mare d’abisso che può inghiottirlo.
Và! Sciaguattata onda, cavalca la schiuma gialla e sudicia, porta la bottiglia e il ramo, la plastica invitta, il canto dei porti malmessi, le vite trebbiate dal sole, il cancro di sale dentro ai polmoni.
L’arte nell’inferno di un mare che si cuoce in perenne calma, che vorrebbe erompere sull’uomo. Impalpabile gioco, ruvido olezzo che attrae. La notte dalle ciglia rosee schiude antiche maree. Il poeta vuol viandare nel mondo, insaziabile di morte. La trova ovunque, la tenta, la possiede, la scansa con tre passetti di ballo. Giganteggia sulle vite estranee, gli amori appresso sono uncini. E suda nei vicoli dove trenfia una vita tutta sua che crede vera.
La carne perennemente gonfia di lividi.
Il poeta, d’istinto viaggia e muore tra vicoli e lupanari. Sedentario in ufficio uguale muore. Il poeta non può straniarsi ulteriormente. E’ già rivelazione della vita, è bambino senza spiegazioni. Stizzoso, un bimbo trecento e più bizze urla. E’ la piccola carne querula di latte e sangue, la stella, il sole, marmo, il verme che insemina la mela.
Il poeta vede trasfusioni della vita in ogni dove, nell’officina e l’azienda, la ferramenta, la piazza di madri goffe, nella morte appena nasce. L’apprende, l’apprende, ha già i versi nelle viscere e salgono, danzano come gorghi di lava: dai lumini di stelle o al parlare di case e piccoli armenti, di nullità: il cugino che ha ingravidato la nuora, l’ora del tramonto sulle cime, la neve pesa e sporca sulla gronda; in ogni tema è manifesta la morte e la canta.
Su ossa disperse di Alceo
rimare intere parole
è un cercar di trattenere
foglie prestate al torrente.
Altre ossa frugare
nell’ignota fossa
dove Lorca attende.
Non può esser nient’altro che quest’atto politico d’eterno, ma senz’uomo. Il poeta prima ancora di avere contrasti con la società, li ha con la vita. E solo senza farsi uomo è maturo, compiuto, giacché è quel dio bambino derelitto e spietato. Che se vuole libra, altrimenti ingorga come un sacco di sabbia in gola.
Potrebbe raccontare il giorno minuto e il moscerino fradicio d’uva, i fuochi delle tende sulle steppe del Caucaso, saprebbe piangere quando il mare alza le sue rigonfie ginocchia d’acqua, oppure rovesciarsi per ore in piccole rime di settembre; canta sul canto del bardo e l’orrenda selva, le zanne sul cranio predato e saprebbe venderlo a chiunque come magnificente natura invece che intatto orrore qual è.
Ho letto di un poeta che cantava il cuore di rame delle periferie, un altro l’amore al suo più breve sorso d’estate. Uno del mio tempo ha scritto poesie sulle donne avute, l’altro chiamava per nome le farfalle, le monete erano sogni, asole gli antri, ramazze di poesia sul mondo materiale i suoi versi sugli autobus. Uno fingeva che i poeti fossero setta marciante, l’altro salvezza, l’ultimo ponte tra colori e sputi d’inchiostro.
Nessuno sapeva dire del mostro che attende e va ansimando. Non esistono poeti che tra l’altro sono anche maledetti; i poeti tutti sono maledetti.
Immagino una ridda di pensieri sciamare sui musei sventolando alcune picche di fuoco, con naturalezza sfregiare le metope, vermigliare il terrore su l’arte visiva che abbellisce Natura (ripugnanti vernici zuccherine che dovrebbero acquietare). Il poeta non bada ad alcuna riforma, elitaria, popolare, combattiva, edera di rime, giogo al verso alessandrino.
Il poeta è saliva col quale canta l’orrendo mistero, della cui lingua non si cura e perciò la reinventa e la plasma, volendo con molta tenerezza.
Ninnola blu dolcemente il mondo
un bianchissimo vascello d’ossa
che nella spuma affonda e giù scossa.
Avvolto un bozzolo nel profondo,
bruchino senza che nulla possa.
Al moncone rosso di pensieri
i versi vanno a spiegare il cielo
come la fucina dei cantieri
e del prato che avvolge il poeta
resta quel domani senza meta
resta violetto inutile stelo.
Ecco, un rimatore mediocre ha sbavato sul mondo pastoie di versi sul nulla, l’unica cosa che vale cantare poi. Nulla il groviglio che questua sapere. Al tempo così fetido, al dio che ci ha illuso d’esistere va rombato l’odio abbellito con la mazza chiodata del verso.
L’arte consolatoria è roba spicciola. Se la sofferenza friggerà le cervella e torcerà nel fornellino delle clavicole in fiamme un tenue dolore depresso, ritieniti salvo. Altrimenti cerca e fruga, succhia tra la polpa mandarina e sputa semi, danza e fai mondo. Sii reietto e più reietto dormi sull’infinito mucchio delle siepi. Getta Soli nei tuoi inutili versi e vomita il sidro del bar di periferia, vomita la repressione e la mestizia. Urla roco il giorno dopo i clarinetti della sbornia.
Mentre frinisce la nuvola rossa sul cielo e un mondo è oppresso di tramonto, il poeta vuol cantare e pur di farlo ucciderebbe ogni creatura nella città intonsa di un solito riposo. Bisogna bere le erbe nel pestello e pestarci assieme i lombi gravidi e il sangue, così da fare intruglio e bere e scordare. Ecco, si guarisce e giunge senza drammi il sonno e la tosa. E la normalità poi, la perenne bestia.
Ho visto le scatole all’Ikea e il cartellino
prezzato, lo sconto!
Proprio il giorno in cui Engels studiava
l’origine della proprietà.
E dieci roani imbizzarriti sbranavano
due sole cavalle, di sangue.
Non vedi come ogni
ceppo del fracasso di teste
era ieri? Era oggi.
Ecco: il tempo.
Ho preso tre barattoli di pelati
il tempo in cui Antares – fra tremila secoli –
vedrà questo giorno. E il sole
era enfiato su di noi, e andrà
ingoiandoci.
Trentamila euro a pomodoro,
l’inflazione
del Sistema Solare.
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