Aprii gli occhi nello stesso momento in dai campi fischiò un lunghissimo verso d’uccelli.
Benché col tronco del corpo restassi immobile, la mano sinistra andò freneticamente a tastare il muro finché, trovando l’interruttore, una corolla di luce irradiò soffusamente la camera.
Fermo, raggelato, muovendo solo un piede per alzare il lenzuolo e tirarlo a me, per coprirmi. E coprire Thomas, avvolto nel suo pigiamino azzurro, perso in un tenero ronfare.
Avevo sognato cose semplici, cose banali; ma poi?
La vecchia casa di campagna dove dormivamo in quella fresca notte di fine agosto, quello era il sogno, ma ambientato durante la mia infanzia. C’era in lontananza il fattore assieme a mio nonno; parlottavano con quello che nel sogno doveva essere un perito edile in merito a qualche lavoro di muratura da apportare al casolare. Era notte, come adesso, potevo udire il trillare dei grilli nel pianoro. Dalla stalla, già allora adibita a cantina, ecco invece venire un lieve e sommesso mugghiare. Un rumore sempre più forte mentre mi avvicinavo.
Alcune splendide giumente, coi nodelli tirati e il ventre grasso. Chine mangiavano col muso nel trogolo; solo quando lo alzarono vidi ruminare qualcosa di filamentoso, come alcuni straccetti: era carne.
Sai cosa significa? Stavo immobile e questa domanda puntellava la mia testa. Quella visione ripugnante… non volevo ricordarla e forse, forse mi sbagliavo, mi dissi. Probabilmente era solo fieno.
Gli uccelli cantavano piano sulle greppie e l’orrore trasmigrò dal sogno alla realtà, poiché ebbi come l’impressione di udire piccoli ma precisi rumori giungere dall’aia. Coprii istintivamente il mio bimbo e lo tirai a me.
Cercando una quiete impossibile mi venne in mente mia moglie: non ci aveva seguiti nel nostro solito weekend agreste; scrutinatrice al seggio comunale.
“Andate soli voi due, sai come si diverte Thomas in campagna.”
Ma ora avrei voluto essere a casa nostra in città, nel condominio che pure odiavo. Quando nelle notti insonni calavo nella corte per fumare, scrutando le finestre del gran palazzo con qualche luce perennemente accesa.
Invece la campagna era nera, sola, come fossimo abbandonati, soli con quell’incubo idiota ma che sapeva … sapeva di morte.
La luce del lumino riusciva appena a mostrare il filo bruno dei campi fuor di finestra su cui palpitava il vento. Mentre i campi stessi erano immersi in un paludoso silenzio, dove qualche creatura pareva nascondersi, respirare, muoversi nell’erba.
“C’è qualcuno?” Dissi con un filo di voce che nemmeno udii. Avevo paura.
Passarono dei minuti prima che riuscissi a trovare la forza per alzarmi. Muovendomi piano, lentamente, chiusi la porta di camera dando le mandate. Dovevo essere pazzo.
Ecco, anche i grilli tacquero, il silenzio si fece denso, vivo. Forse conveniva piangere per calmarmi, oppure provare a riaddormentarmi. Stavo disteso su di un fianco, gli occhi fissi alla porta di camera (dare le spalle era escluso). Mio figlio era dietro di me, così nel volerlo carezzare mi costringevo a una posizione innaturale che mi impediva di assopirmi.
Passavano i minuti e ogni pensiero formulato provocava un’urgente esasperazione che piano prese il posto della paura: dovevo scendere e controllare! Feci le scale tremando, al buio. Eccomi in cucina. La luna era stagliata in cielo e illuminava il vialetto fuori casa e il pergolato. Tutto in ordine, spoglio, sterminato all’orizzonte. Ogni cosa lontana.
E la città… la città da cui fuggivamo il venerdì, come la adoravo adesso! Rumorosa, pregna di vita; ogni piccola visione insopportabile come l’ufficio, le utilitarie incasellate, la tramvia coi freni stridenti alla sosta, le luci al neon nei pomeriggi di ottobre, tutto mi parve splendido; ogni faccia indossata dai passanti che incrociavo a testa bassa sarebbe stata mia amica, solo com’ero in quella notte.
Tornai su e strinsi forte il mio piccolo, toccandogli i suoi piedini freschi, coprendolo col pigiamino azzurro. Fortunatamente dopo poco mi riaddormentai.
La mattina, nel preparare la colazione, osservavo il panorama della collinetta mentre il sole era alto. Tutto il mondo inondato di luce; risi di me e di quella notte scema.
“Thomas, Thomas! Sei uscito in pigiama – lo brontolai chiamandolo – vieni, è pronta la colazione.” Lo avevo visto gironzolare sull’aia cinque minuti prima, col pallone che era solito calciare addosso al muro. Pur non vedendolo, lo controllavo in quel modo, grazie dal rimbombo delle pallonate; ma queste cessarono e credetti fosse in salotto: non c’era.
Fuori intanto una caligine violetta invase le colline, e le nubi, simili a un grande stormo, coprirono il sole. Io, fermo in mezzo all’aia, vidi la palla di Thomas rotolare ai miei piedi dal pendio lieve che dalla stalla, dalla cantina a venti metri, portava lì.
Mi avvicinai scandendo piano il nome di mio figlio, mentre in ogni interstizio del mio animo filtrò un turbamento; e questo che si ingigantì quando udii un suono sordo, come un tonfo ma prolungato. Una sorta di muggito.
Mi affacciai e le bottiglie di vinsanto in fila sulla mensola non lasciavano intuire nulla di strano.
Solo la mangiatoia era attaccata al vecchio stabbio. Io non l’avevo mai vista o forse non lo ricordavo. Dal quel recipiente di legno però penzolava qualcosa. Come un lacciolo. No, non era un lacciolo, ma frammento, un pezzetto di stoffa.
Il pigiamino azzurro a brandelli, tra mille rivoletti di carne rossa.
Mi tirai su dal letto intriso di sudore, un urlo strozzato in gola dall’incubo. La lieve vampa delle stelle fuor di finestra. Era ancora notte! Tastai di fianco a me nel letto, per sentire Thomas. Accesi la luce. Il materasso era vuoto.
Roteai gli occhi impazzito, gettandomi giù per le scale di corsa, senza comprendere dove, quando, come potesse finire il sogno e iniziare l’alba.
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