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Minimali Arrosti

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Scritture semiserie di Michele Masotti
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In Civitas

Per Forza o per Lucrare!

1 Febbraio 2018

 

Ho preso un sorso di vita
vi dirò quanto l’ho pagato
precisamente un’esistenza
il prezzo di mercato, dicono.

Emily Dickinson

 

“Venne infine un tempo in cui tutto ciò che gli uomini avevano considerato come inalienabile divenne oggetto di scambio, di traffico, e poteva essere alienato; il tempo in cui quelle stesse cose che fino allora erano state comunicate ma mai barattate, donate ma mai vendute, acquisite ma mai acquistate – virtú, amore, opinione, scienza, coscienza, ecc. – tutto divenne commercio. È il tempo della corruzione generale, della venalità universale, o, per parlare in termini di economia politica, il tempo in cui ogni realtà, morale e fisica, divenuta valore venale, viene portata al mercato per essere apprezzata al suo giusto valore”.

Karl Marx, “Miseria della filosofia”

 

 

Tre amici

Senio era un ragazzo semplice, di quelli cresciuti sulle lastre, come si diceva dalle sue parti. Aveva il viziaccio di avere nel cuore la sua piccola e vecchia città stellata di quartieri e tetti rossi. Da piccino era vissuto tra cinque case in una viuzza stretta stretta che tagliava in due il rione, e nello stesso rione, abitatissimo, giocava sempre con due ragazzi: Bernardo e Lippo.
Il primo era piuttosto timido, molto dolce, un po’ chiuso forse. Lippo invece cresceva energico e sicuro di sé.
Come ogni bambino nato nella città rossa i tre presero ad amarla in modo viscerale; la sentivano eterna, avvertita come una culla dove poter fiorire fra antiche tradizioni e vita comunitaria. E il Palio poi: non una semplice corsa, non semplice appartenenza, ma gioco secolare della città, identità primitiva, connubio animale, mappa dell’anima: inspiegabile.
La piccola comunità si vestiva dei suoi antichi riti, tra il gioco e la farsa, l’arte e la tragedia, specchiandosi nel mondo ma conservandosi intatta – o così credevano tutti.
Eppure, nel vorticoso presente della società-mondo può una comunità serbarsi autonoma e indipendente rispetto ai processi socio-culturali? Quanto c’era di forzato e ideologico nel sentirla così peculiare ed estranea, superiore anche, a ogni altra realtà? Grandi domande che però non facevano certo paura ai tre ragazzi.

Così, sin dalla tarda adolescenza ne parlavano spesso di quel loro amore, del privilegio di essere nati e cresciuti lì, il sentire qualcosa di particolare; presero insomma a filosofeggiarvi su. La sera in contrada, poi, amavano pontificare sui cambiamenti che pian piano iniziarono ad avvertire: mutamenti del tessuto sociale, mutamenti di quel gioco cittadino, il Palio, mutamenti dei valori nel microcosmo delle contrade. Ebbene, scoprirono in fretta che la città rossa era immersa nel mondo più di quanto credessero; e col mondo, ovviamente, cambiava anch’essa.
Tutto ciò era un fattore positivo oppure no? Su questo i ragazzi avevano idee profondamente diverse e fin dai vent’anni ognuno difese strenuamente le proprie: Bernardo soffriva di quei cambiamenti che a dir suo snaturavano la città e le sue tradizioni e fantasticava invece su un mondo perduto e da ricreare, un mondo “a misura d’uomo, di quartiere”. Lippo trovava queste considerazioni esagerate; anzi, esaltava la frenesia del presente, poiché “non si può vivere con la testa rivolta all’indietro”.
Al di là delle opinioni di ognuno era palpabile come fosse la città stessa perennemente contraddittoria e tesa in una dialettica strana: immersa nel mondo, appunto, ma con quell’identità che la frenava, volendola legata a un gioco sociale (dunque a un rito) nato secoli addietro. Come se il corpo dovesse seguire un inevitabile cammino tracciato, mentre l’anima potesse restare incatenata a un fantomatico e “glorioso” passato.
Senio dal canto suo non sapeva sguazzare in questa dialettica e difatti stava sempre a metà del guado tra le opinioni degli amici senza approdare a nessuna riva; non perché non ci tenesse ad avere una posizione, tutt’altro! Il fatto è che trovava parzialmente giuste entrambe le considerazioni. E così, quando le sere d’estate gli altri due restavano impelagati nelle elucubrazioni su rione, Palio e città, Senio taceva rimuginandovi su.
Bernardo parlava dello spirito di mutuo soccorso tra gli appartenenti al rione, i valori di fratellanza, lo stesso rione puntinato di antichi mestieri che loro avevano soltanto intravisto sul finire d’infanzia. E che davano stabilità sociale. Così sognava:
“I trucioli portati dal vento quando sbandieravamo fuori della bottega di Mauro. Ve lo ricordate il falegname? O il profumo della gomma del calzolaio? Le sue partacce quando ci finiva il pallone dentro? E la botteghina in capo alla via? Un peccato quella fine. Il vinaio quando s’era piccini non c’era già più, ma il babbo me lo ha raccontato mille volte del dopo lavoro: tutti si trovavano lì per stare insieme, perché ci si conosceva. E comunque noi siamo stati fortunati ad aver visto un ultimo scampolo di quella città rionale, quando ancora la sera c’erano le vecchine in strada, fuori dall’uscio a parlare.”
“Madonnina che palle fai! – sbottava Lippo – E poi il vinaio c’è sempre.”
“Ma ora è roba per turisti, un panino costa un occhio della testa!”
“Ma non lo senti come queste cose siano pura retorica? Allora che si vuol fare? Ricreare il vinaio fatiscente con le uova sode e basta? Rimettere in piedi le altre botteghe? Se sono scomparse ci sarà un motivo. Senti, da una parte hai ragione e la città di oggi sarà anche più anonima, ma almeno ci si sta meglio! Si vuole tornare alla miseria, alla tubercolosi di inizio Novecento? Dai, il mondo è questo, e per fortuna!”
“Certo che non voglio la tubercolosi! E lo so che il rione è cambiato: guarda la botteghina: ora c’è il kebabbaro. Ma deve piacermi per forza?”
Senio ascoltava. E quella tiritera andava avanti mese dopo mese, anno dopo anno, roteando attorno ai soliti argomenti: dal “tessuto rionale disfatto” al Palio, che ovviamente non esulava dalle invettive di Bernardo, anzi!
“Ormai mica è roba nostra. Il Palio è in mano ai fantini! Sarà anche retorica ma è un dato di fatto.” Diceva ripetendo più o meno quello che sentiva dire dai vecchi della contrada. “Un tempo si portava rispetto al Capitano, era lui che decideva. Ma ora? Siamo così… reverenziali, siamo venduti. E ci siamo fatti rubare il giochino.”
“Ma da chi? Dai fantini? Ma se sono loro ad averne le competenze tecniche, a chi si deve far dirigere la questione?” Obiettava Lippo con la solita calma.
“A noi. Noi siamo le contrade. Guardali… – indicando i dirigenti seduti ai tavoli del Circolo – sono lì pronti a farsi scegliere, loro! Dal fantino di turno.”
“Eh, allora vediamo che ci scelga quello giusto, – chiosava Lippo sorridendo – dato che è già qualche annetto che non si vince.”
Senio si toccava i suoi capelli sulla fronte e stava in silenzio, poiché i discorsi di Bernardo erano romantici, e alcuni anche giusti in fondo, velati di quella malinconia che, non sapeva perché ma gli faceva male; anche Lippo dal canto suo però faceva bene a smorzare quel pateticume, come lo chiamava. Era un po’ cinico, certo; ma anche più lucido.
Sicché lui faceva da intermediario, senza sapere fino in fondo da che parte stare.

A venticinque anni però la contrada gli parve cambiare davvero. Forse non era stato un processo immediato, forse c’erano voluti lustri, fatto sta che da un Palio all’altro si rese conto di vivere in un ambiente sociale completamente nuovo. Intanto il numero delle persone in contrada era aumentato spropositatamente. Le cene pre-Palio di una volta, a cui partecipavano una settantina di persone, adesso erano vissute da centinaia di “contradaioli”, per lo più sconosciuti, almeno a loro tre che lì c’erano nati e vissuti.
“Ma d’altra parte è anche giusto accettare chi si vuole integrare.” Borbottava con la solita tiepida convinzione.
“Ma infatti! Oh, vedo che la pensi come me finalmente. – rincarava Lippo – E mi paiono anche tutte persone a modo: si rendono utili, fanno i servizi. Qualora si presentassero le mele marce siamo in tempo ad allontanarle. Poi, per fare un esempio, quello di Gubbio venuto l’anno scorso, lo sai quanto sottoscrive? Parecchio più di tanti che fanno i contradaioloni!”
“Vedi dove si va a parare in fondo? – brontolava Bernardo – Sempre lì – mimando con le dita il frusciare dei soldi – e comunque sia, a parte la solita fame di denaro, il problema è anche la contaminazione identitaria, siamo triplicati e per giunta senza vincere, quando, è risaputo, arrivano in contrada cani e porci. Mescolandoci si perde il senso di tutto.”
“Ma che tutto e tutto! Fai i discorsi come un troglodita.” Sbottò Lippo.
“Ma non dire cazzate! Io sono aperto.”
“Oddio, troglodita è esagerato, ma non è che te, Bernardo, sia proprio aperto aperto come dici”.
Risero tutti e tre avviandosi al bar del Circolo per un solito brindisi. L’estate era alle porte e con essa il gioco della loro gente. Vecchio, cambiato, tradito, fatto di balzi in avanti e ricerche antiche. Storico senso, sociale parto, antropologico rito, umano vizio.

Cos’erano loro tre dentro la città rossa? E la comunità immersa nel mondo? Cercavano sempre di capirlo e per un attimo lasciarono i loro pensieri sul passato e il futuro della tradizione, vivendo il presente colmo di gioventù, mentre la contrada, in silenzio, pasceva il Palio.

 

Il libro

Passarono altri anni e la vita trascorse docile, polemica e paesana come sempre.
Data l’inconciliabilità di quei loro pensieri sulla comunità in cui vivevano, Bernardo (intanto impiegato in un concessionario appena fuori Porta) e Lippo (divenuto noto esercente cittadino) quasi placarono la loro decennale e insanabile polemica. I ragazzi fattisi uomini si trovavano come sempre in contrada – certo, compatibilmente alla propria vita – ma adesso però parlavano d’altro. Della vita appunto, dei figli, delle loro compagne, del lavoro.
Paradossalmente solo Senio, che un tempo non riusciva mai a prendere posizione, voleva ancora sviscerare i problemi cittadini. O forse proprio perché ancora quella posizione, a trent’anni suonati, non ce l’aveva.
Amava la città e la contrada che viveva a fondo, ma era spaesato, sentiva che il mondo era diverso e con esso il loro ambiente: precario, insicuro, senza una bussola per orientarsi. Su questo aveva ragione l’amico Bernardo, anche se le idee scaturite dal sempiterno slogan dei duri e puri – “chiudere le porte” – le trovava comunque ridicole.
Eppure quel disagio lo pervadeva e lo frustrava al tempo. E la sfuggevolezza del presente era la cifra del suo malessere.

Accadde un giorno poi, quasi per caso.
Salito in soffitta per cercare alcune grucce per i cappotti, si imbatté in un grande tomo polveroso; un libro di filosofia politica o cosa? Pensò.
“Dinamica del processo sociale.” Si intitolava. L’autore? Uno sconosciuto. Sarà stato del nonno, pensò afferrandolo.
Nei giorni seguenti, quasi per caso, si trovò a dargli una scorsa, giusto di passata e nei tempi morti della giornata. Poi senza quasi accorgersene prese il volume, che dal tavolo di cucina dove stazionava assieme ad altre scartoffie fu messo sul comodino di camera. Qualche lettura breve la sera prima di dormire finché non divenne un’abitudine costante.
E incredibilmente, dopo un mesetto fu come si diradassero alcune nubi e dentro quella carta velleitaria che trasudava idee perdute nei meandri della Storia, a Senio sembrò di scorgervi qualcosa della sua vita. Qualcosa sulla tanto lamentata decadenza della città, qualcosa sul perché a un dato momento storico, anzi, in quel momento specifico, i “valori” un tempo creduti eterni andassero annacquandosi.
Così lesse, lesse, lesse. E la sera smise addirittura di uscire dopo cena; difatti i tre amici erano soliti ormai da tempo avere una data prefissata infrasettimanale per il solito cenino in contrada; così, per non perdersi troppo di vista.
Con la scusa che era un inverno particolarmente freddo e che doveva finire l’esame di abilitazione professionale per diventare avvocato, disertò per mesi il Circolo e quei consueti cenini. Dispiaceva anche a lui star sempre in casa a fare il “topo di biblioteca”, ma d’altronde era immerso in quella che sentiva come una necessità: capire a fondo la propria vita. E se la propria vita erano rione e città (e non pareva in effetti anelare ad altro) doveva comprendere quello che lì accadeva, quello che molti denunciavano come uno sfilacciarsi di un “qualcosa”. Già, ma cosa? Ogni comunità, spiegava il libro, non è che immersa in un contesto sociale più ampio. La cittadella coi propri riti e i propri miti, era forse un’eccezione?
All’inizio, lo studio sulla contemporaneità partorita dalla e nella società industriale pareva difficile, ma pian piano tutto si fece nitido. E apparve ovvio come se nelle società pre-mercantili il mondo fosse statico e immoto per via di determinati rapporti sociali, al subentrare di un nuovo modo di produrre, a rapporti sociali completamente mutati, la spiegazione della precarietà e anche della vitalità del tempo presente iniziò a farsi ovvia.
“Per forza la pelle della città muta. Per forza le botteghine artigiane sono fagocitate, se si espande la grande industria. se la competizione necessita di sempre maggiori mercati… E se, espandendosi, la grande distribuzione abbassa i prezzi…” Esultò una notte. “E nessuno può farci niente.”
Ecco che con la bottega scompariva la gestione familiare del negozio, i punti fissi di ritrovo, l’idea stessa di rione.
Così ripensò a quelle vicende che rimembrava sempre Bernardo: il calzolaio, il falegname, il vinaio, “quando ci si conosceva tutti”. E la botteghina in capo alla via.
Tutto era mutato, non si poteva tornare indietro.

 

La prassi sociale

Senio posò il tomo sulle gambe e si asciugò gli occhi; quelle storie sui vecchi artigiani scomparsi, storie vissute con noncuranza da ragazzo e risentite infinite volte nelle querimonie di Bernardo, adesso le comprendeva in tutto il loro poderoso dramma sociale.
Ma quella consapevolezza non lo sollevò, tutt’altro. E quella sera andò a letto tra il disincanto e la malinconia.
Ovviamente le letture non si interruppero, anzi.
Se la causa dello sfaldamento del tessuto rionale era ormai evidente, c’era da sviscerare meglio l’arcano che viveva in ogni lamento del cittadino e del contradaiolo: la perdita del “sacro” (rito del Palio compreso), che pian piano andava mercificandosi.
“Le società di contrada ormai sono aziende. I fantini imprenditori. Ma non si vede come tutto viene fatto per fare cassa?” Queste lamentele erano sulla bocca di tutti.
Ed era vero, aveva convenuto Senio ascoltando le mille invettive del solito amico; senza mai capire il perché però. Bernardo dava la colpa agli uomini. Una colpa antropologica: il degrado era palese e secondo lui la perdita di valori era imputabile ad aver perso l’eroico spirito degli avi. Ovviamente tale tesi, che Lippo contestava in nome del “vivi e lascia vivere” e del solito “così va il mondo” – senza però entrare nel dettaglio del perché andasse proprio così – a Senio non bastava. Affatto.
Ogni valore è mercificato? Va bene. Palio compreso? Va bene. Ma perché?
La risposta sulla natura maligna dei suoi concittadini che avevano buttato ogni tradizione in malora non poteva soddisfarlo. Forse i conterranei dei secoli addietro erano più virtuosi? No, non se la beveva; e poi quel passato mitico che Lippo non sopportava (“ci incatena all’idea di Medioevo ed è anche posticcia come ricostruzione storica”), ecco, anche a lui a volte pareva eccessivo; d’altronde uno dei refrain cittadini era una battaglia epica di settecento anni prima come fosse stata combattuta il mese scorso. Un po’ poco in effetti, pensava Senio.

Finì l’inverno di clausura e apparve rinato. In più con la verità in tasca.
Una sera tornò al cenino e quando si iniziò a parlare delle solite annose questioni, eccolo uscirsene con un esultante:
“Io ragazzi ho capito!” Che incuriosì gli altri.
“Alla buon’ora. – sorrise Lippo – Ci spieghi che avevi? Perché sei stato così schivo in questi mesi?”
“Già, perché?” Lo incalzò Bernardo.
“Mica era per non vedervi! Sono entrato in fissa con un libro. Centinaia di pagine. Sentite un po’: quant’è che ci conosciamo noi? Da tutta la vita, no? E cosa abbiamo fatto, se non parlare, per tutta la vita – marcando bene queste parole – del nostro piccolo microcosmo, della sua presunta e incipiente rovina, della corruzione, dei vecchi valori?”
“Già, io sarei anche stufo.” Brontolò Lippo.
“Io no invece. A proposito, lo sapete che è successo nella contrada del xxx? Ho letto sul social che devono rifare il museo e chiedono soldi in giro, a tutti.”
“Eh, allora?”
“Ma allora cosa, Lippo! Innanzitutto si potrebbe fare una sottoscrizione, prima, tra contradaioli! Come sempre avvenuto.”
“Ma ognuno farà come gli pare?!?”
“E comunque è il metodo: che roba è questa di dare i premi?”
“In che senso?” Chiese anche Senio interessato.
“Nel senso che te metti un tot? Bene, ti danno una maglietta della contrada. Metti di più? E ti danno la possibilità di andare a cena davanti al concone per la Prova Generale. Non proprio sotto sotto, ma vicino.”
“Ma scusate, eh – intervenne Lippo – se è per una buona causa… E poi il Palio è già aperto al mondo, lo vedono ovunque. E i turisti vengono a migliaia. Se contribuiscono, perché non premiarli?”
“No via, non ci siamo – Bernardo era come sempre su tutte le furie – Come non si fa a vedere che questa è una svendita bella e buona? Allora perché non fare un pacchetto per gli chef amatoriali? A chi piace la nostra Festa che paghi cento euro per venire a cucinare in una società di contrada. Di modo che possa assistere a canti e sbornie di noi folkloristici uomini medievali. Eh? Come si fosse un’attrazione.”
“Non ci vedo niente di male. Mica mi vergogno a cantare le mie vecchie canzoni.” Sorrise tranquillo come sempre Lippo.

Allora Senio prese parola; erano mesi che sognava di svelare agli amici la sua “scoperta”.
“Secondo me, ragazzi, giriamo intorno a un punto chiave. Proverò a spiegarmi: è vero che il tessuto sociale cambia, è vero che i cosiddetti valori si annacquano. E’ vero che il Palio è sempre più attrazione folkloristica e meno rituale; che la contrada va perdendo di identità, che tutto è sempre più mercificato.” Lippo sbuffò di noia, Bernardo sgranò gli occhi esultante. “Ma il problema è della società, al quale il Palio non può certo sfuggire. La società stessa si presenta di fronte a noi come un enorme accumulo di merce.”
“Ed è forse un male? – chiese Lippo risentito – Il mercato ha forse portato rogne? Allora torniamo al feudalesimo!”
“Aspetta, non dico male o bene, fammi finire. Il mercato ha portato certo un miglioramento. Ma se tutto è merce e tutto si scambia, se anche noi ci vendiamo al mercato per vivere…”
“Ma mica siamo schiavi! Anzi, è così che ci siamo emancipati.” Lippo era contrariato.
“Ma io non voglio dare un giudizio politico. E comunque il punto è un altro.”
“Ecco, qual è? – chiese Bernardo – Dato che qui si parla della mercificazione del Palio e non dei massimi sistemi.”
“Ma le cose sono legate. – sorrise Senio – Se vivi in una società i cui rapporti sociali determinano la tua vita, come si può non rivedere quegli stessi rapporti in ogni contesto?”
“Mah, io non ce li vedo.” Ribatté Bernardo.
“Francamente nemmeno io.” Aggiunse Lippo. Finalmente i due erano d’accordo.
“Io invece l’ho intesa così, ci sta mi sbagli: siccome i vigenti rapporti sociali fanno sì che la base su cui si regge la società sia il lavoro venduto come merce e che dallo sfruttamento di quella particolare merce, senza frusta!, derivi il profitto, mi pare che mettere a prezzo tutto il resto e ricavare profitto da ogni magagna sociale sia una tendenza necessaria e consequenziale. Vi torna?”
Gli altri tacquero mugugnando.
Senio proseguì:
“La realtà che va mercificando ogni poro dell’esistenza è immanente al modello sociale. E ha portato anche benefici, rispetto alla società dove c’erano i cosiddetti valori, ma anche fame e peste! Però ovviamente il Palio non può sfuggire a questo modello. In nome di quale eccezione?”
“Secondo me la fai più grande di quello che è. – disse Lippo – Questi mesi di reclusione ti hanno fatto male, te lo dico io.”
“No invece. Ho solo deciso di indagare la società.”
“Che cazzate, ci mancava il grande teorico!” Scherzò di nuovo Lippo. Bernardo rise di gusto, poi aggiunse:
“Io c’ho capito poco; per me tutto questo cambiamento è solo colpa nostra è basterebbe la volontà di chiunque per preservare certe cose, non vendibili!”
“Ma se gli uomini non padroneggiano a pieno il processo sociale che fa sì che si vendano al mercato per vivere; se anzi il bisogno di vendersi al mercato, pena il morire di fame è la regola; e se su questa regola si regge la società basata appunto sul profitto… allora va da sé che ogni occasione sarà buona per cercarne altro di profitto, per ricavare ciò che è la trasposizione degli stessi rapporti sociali. Ciò che tutto può.” E spalancò le braccia come fosse ovvio.
“E sarebbe?” Dissero gli amici in coro.
“Ma il denaro, no? Tutto ha un codice a barre, persino un figlio oggi è fabbricato e venduto al giusto prezzo.”
“Guarda che prima era peggio! I figli valevano zero.” Lippo era un continuo obiettare.
“Ma io non ho detto che prima era meglio! Ma se tutto si vende, figuriamoci il mostrare le nostre contrade a mo’ di zoo, mettere prezzo ai nostri valori, mercificare l’appartenenza, regalare gadget in cambio di soldi. Le contrade sono aziende perché ne abbiamo bisogno, mica per cattiveria o per tradimento. Non è forse l’obbiettivo ‘vincere spendendo’? E’ un processo che viaggia così per assoluta necessità, seguendo la sua ‘natura’. Mica perché hanno trionfato le forze del male.”
“Ma la spesa nel Palio è la regola, da sempre.” Disse Bernardo. E Lippo rincarò:
“Ma ci si ricorda o no che una contrada, una sessantina di anni addietro, quindi quando c’era ancora la mitica comunità che rimpiangete tanto, vinse il Palio coi proventi di un film hollywoodiano, girato sulla nostra Festa?”
“Ma infatti il processo mica nasce oggi, nasce due secoli fa. Oggi che il mercato è mondiale però il processo va distribuendosi capillarmente e ogni cosa è in saturazione, ogni cosa è finalizzata a quello. Il Palio, la corsa intendo, si vince coi soldi. Trovare ogni magagna per drenare denaro è la priorità… et voilà. E tutto il resto, valori, tradizione, rito eccetera eccetera segue a ruota, snaturandosi.”

Bernardo continuava a capirci il giusto, ma aveva iniziato ad annuire. E comunque per lui ancora esisteva una città buona e una cattiva, una proba e una corrotta.
Lippo alla fine della discussione concluse che se le contrade cercavano sempre più “magagne” (lo disse scimmiottando l’amico) affinché si vincesse quanto prima, non era certo un dramma.
“E poi oh, già non si vince… iniziamo a fare anche i moralisti sul denaro come sterco del demonio.”
“Moralisti? Ma se ho cercato di spiegarti che è la trasposizione di un rapporto sociale… vabè”. Senio si interruppe e prese una birra.
“Cari ragazzi, il Palio si vince coi quattrini, mica con le chiacchiere.” Sentenziò di nuovo Lippo, prendendosi anche lui una birra e offrendola a Bernardo. “Se volete tornate pure all’idea dei partiti con le strette di mano. A me non convince tutto questo purismo. E poi, signor filosofo, vorrei sapere cosa proponi: la rivoluzione mondiale per salvare il Palio?”
“Campa cavallo.” Disse Bernardo.
“Infatti campa cavallo. Io ho solo cercato di capire qualcosa che mi permettesse di afferrare le cause di un malessere e di un’alienazione diffusa. O vogliamo negare che non esista questo malessere?”
“Io sto proprio bene. – chiosò Lippo – Se non fosse che sono le due e domattina c’è da alzarsi.”
“Io invece inizio a starci male qui.” Bofonchiò Bernardo allargando le braccia al circolo della contrada.      “E’ tutto così… anonimo. Ormai sono più le persone che non conosco delle altre.”
“Ma lo spaesamento e l’alienazione infatti sono generali; e si riflettono sulla città, sul rione, sul circolo. Su tutto. La precarietà esistenziale è prima di tutto precarietà sociale. Inutile negare questi fenomeni come fai te, Lippo. E inutile dare colpe moralistiche come fai invece te, Berni”.
“Ok, ora che è stata fatta la lezione, possiamo tornare a bere?” Lippo era stufo, ma aveva voglia di scherzare.

La serata andò così; i tre amici nati e cresciuti lì stettero insieme fino a notte fonda. Si cantavano i vecchi stornelli che tanto amava Bernardo. Si parlava di un futuro radioso, esaltato da un Lippo ubriaco.
Senio, disincantato ma ormai radicale-cosciente, amava e odiava tutto al tempo, capendolo però questo tutto. O così, almeno, pareva a lui.
Vecchia eppure bambina, la città rossa si specchiò in un’alba fosca.
La contrada ancora non vinceva il Palio.

 

La macchia

Due, cinque, dieci. Tanti furono gli anni che passarono.
I tre quarantenni erano davvero uomini adesso, e come accade agli uomini “maturi”, nessuno si smosse dalle proprie idee.
Bernardo dunque iniziò a venir sempre meno in contrada, perché ormai davvero non la sentiva più sua; era un circolo estraneo, come lo definiva. Certo, avrebbe voluto veder vincere il rione dopo decenni, ma ci stava male e non riconosceva più “il suo Palio”. Tanto più che Lippo, a quarant’anni esatti, divenne il Presidente di Società; e la questione storico-sociale e identitaria, prese una piega ancor più sfacciata.
I cenini infrasettimanali, rigorosamente dedicati alla comunità contradaiola (secondo una legge non scritta) furono invece sponsorizzati in tutta la città; e le persone affluivano copiose poiché ogni settimana c’era in palio una lotteria con premi invidiabili. La Festa Titolare si fece realmente sagra. I pacchetti promozionali per il Palio, poi, erano venduti on-line e andavano a ruba tra i turisti. Le attività per i giovani furono le uniche all’ordine del giorno nel programma del Circolo, perché secondo il Presidente “i giovani sono il futuro della contrada”, come non mancava retoricamente di ripetere.
“Ma non stiamo esagerando? – chiedeva Senio – Facciamo anche altro oltre alle discoteche, no?!?”
“Tipo? Le tombole? Ahahaha, dai Senio. Ma ci sono i soliti ritrovi di sempre, solo che abbiamo altre priorità; ma se d’altronde coi ragazzi facciamo di più… e poi quando eravamo ragazzi noi, forse non c’erano le discoteche?”
“Però ragioniamo: quello che dice Bernardo, e cioè che questi ragazzi sono snaturati, un po’ è vero.”
“Ma che noia! Ma che dice Bernardo?!? Sono quarant’anni che rompe le palle. E ora nemmeno viene più. Si prenda un incarico invece di lagnarsi.”
Tutta quella stizza verso il loro amico colpì Senio, che comunque continuò:
“Va bene che i giovani sono il futuro, anche il presente se è per questo. E io non voglio fare solo stornelli e roba vecchia. Però ammetterai che i ragazzi di oggi sono diversi da come eravamo.”
“A me sembrano in gamba e ci tengono alla contrada.”
“Ma hai visto che la metà dei ventenni viene da un anno o due? Lascia stare la litania del nascere nel rione, vecchia anche al nostro tempo. Ma almeno eravamo tutti di contrada dalla nascita. Ce n’era uno, massimo due arrivati dopo. E li si accoglieva ovviamente. Però gli si insegnava la contrada, le regole non scritte, il rispetto di determinati valori.”
“Oddio, sei come quell’altro.”
“Ma no, ragiona! E’ ovvio che se oggi il gruppetto diciamo ‘autoctono’ è formato da cinque persone e poi a vent’anni arrivano altri dieci, non sono più gli autoctoni ad assorbire gli altri, ma vi è di legge un annacquamento. Io dico solo che oltre alle discoteche si possa fare qualcosa di ricreativo in altro modo, giusto perché imparino qualcosa. Altrimenti qual è la differenza tra un circolo qualsiasi e quello di contrada?”
“Eh, qual è? Sentiamo”
“Ma come, dai! L’appartenenza qui è un qualcosa di diverso dalla frequenza fine a se stessa. Ma lo sai anche da te che così.” Lippo gli mise le mani sulle spalle.
“Lo so, certo che lo so. Ma è colpa mia se la contrada è diventata una moda?”
“Allora lo ammetti!”
“Certo. Ma che dobbiamo fare? Lo dicesti te che alcuni processi sono irreversibili e che i valori vengono persi dietro al ‘gelido calcolo egoistico’, no?”
“Non ho detto che sono processi irreversibili. Ho solo detto che la fantomatica perdita di valori, a cui peraltro non sfugge l’importanza di crescerci in una contrada invece di arrivarci a vent’anni, è un processo sociale più grande. Se si vuole risolverlo come Bernardo è ovvio non si possa, proprio perché è più grande della volontà di una comunità microscopica che vuole solo fiammate di presunta etica!”
“Ok, nel mentre che aspettiamo la grande rivoluzione che si fa? Io li accolgo questi ragazzi. Scusa, si divertono e stanno insieme. E’ vero che arrivano da grandi e annacquano l’ambiente… ma, appunto, mica è colpa nostra. Senio, ascolta: io come Circolo devo fare attività che portano soldi, e parecchi! Lo chiede la contrada.”
“Qualche priorità dobbiamo pur averla!” Ma si sentiva impotente come sempre.
“La priorità è vincere il Palio. Da secoli. Che poi, scusa – proseguì l’amico – mi hanno detto che il prossimo anno hai grandi ambizioni. Priore? Con cosa pensate di vincerlo voi del Seggio?” Marcando bene l’ultima parola. “Più siamo meglio è, no? E dai, divertiamoci.”
Senio fece finta di non udire la provocazione sulla sua imminente candidatura alla massima carica e proseguì:
“Ma non ti spiace nemmeno un po’ che Bernardo ormai venga solo per i giorni del Palio?”
“Guarda, io ne soffro, e tanto. – disse Lippo in modo sincero – Ma che devo fare? Promuovere ogni serata gli stornelli, i vecchi aneddoti su cavallai e barrocci che non interessano più a nessuno? Oppure proporre in Seggio che la contrada non paghi più il cosiddetto fantino-imprenditore? Già, come dicono i puri? ‘Il Palio torni in mano alle contrade!’ Va bene, provaci se ti riesce; ripeto, se come si dice in giro il prossimo anno farai il Priore, di certo puoi cambiare qualcosa.” Guardandolo con un risolino d’ovvietà.
Era vero.

L’anno dopo, quarantadue anni, Senio divenne in effetti Priore della contrada e tutto per un attimo gli sembrò bello, vivo, sano, come da ragazzino. All’insediamento era presente anche Bernardo, insieme a Lippo ovviamente. E per un’ultima volta i vecchi amici si strinsero in un abbraccio sotto alle bandiere sdrucite del museo, pronti a continuare quella storia secolare.
Un’ultima volta insieme, come detto, perché quello che accadde il giugno seguente segnò la definitiva rottura di Bernardo con la sua comunità.

Un pomeriggio che il priore era in Cancelleria, il vecchio amico arrivò trafelato, spalancando la porta e sventolandogli una locandina di fronte al viso, come a schiaffeggiarlo.
“E questa?”
“Cos’è?” Chiese Senio intimorito.
“Dimmelo te.”

Si leggeva:

“Il 29 giugno dalle ore 13, nei giardini della contrada, musica, buffet animazione con Dj Mike. Cocktail di frutta e un tuffo in piscina aspettando tutti insieme il fantino in contrada. You can’t miss!”

“Che cazzo è?” Riprese con foga.
“Ma niente, un po’ di festa. C’è scritto ‘dalle una’, ma ovviamente è dopo, prima danno i cavalli.” Con un risolino stupido.
“Ovviamente, già… Ma sei il Priore o cosa?”
“Ma queste sono iniziative che spettano alla Società!”
“Non me la nominare. Se vedo Lippo lo strozzo.”
“Ma lo sai com’è, no? Cerca sempre il modo di divertirsi e far star bene i ragazzi.”
“Ma sei demente? Un giorno, tanti anni fa venisti con quelle storie sui… come li chiamavi? I rapporti sociali, con le cazzate. E io ho creduto tu avessi ragione; io non le ho studiate le cose e sono impulsivo. Questa non è più la nostra contrada. Dicevi che avevi capito il perché. Avevi capito ma non fai niente. Io invece non ho capito, ma vorrei fare tutto.”
“Io comunque qualcosa ho fatto! – fingendo di spazientirti – Ho proposto di eliminare il battesimo dopo i dieci anni sì da non concedere l’appartenenza a tutti. Ho proposto di portare a dieci gli anni di protettorato da pagare prima che si possa votare. Dammi tempo.” Ma Bernardo aveva gli occhi rossi.
“Non c’è più tempo. Non c’è più tempo.” Disse solenne. E se ne andò via.
Senio allora pianse come un bimbo, pianse la sua eterna impotenza. A cosa era servito studiare quel vecchio tomo, che pure rispolverava ancora di tanto in tanto, se ogni suo pensiero era velato di incapacità? Ma d’altronde cosa posso fare da solo? E gli altri priori? Tutti sono presi dallo sconforto, ma è così… E giustificandosi si sentì ancora peggio.

Passò il Palio di luglio, Bernardo non si vide. Ad agosto la contrada correva e tutti bramavano quella vittoria che tardava ad arrivare. La formula comunque del DJ nel pomeriggio della tratta fu ripetuta.
“Già non si vince… se ci intristiamo ancora di più…” diceva Lippo. “E poi a luglio era pieno!”
Sul successo nessuno poteva obbiettare, tantomeno Senio. E in effetti la presidenza di Lippo aveva incrementato e non di poco gli incassi della Società. La sua mente manageriale, andava ammesso, era una fucina di idee. E la sua generosità verso il fondo Palio encomiabile.

Poi però ci fu quella svolta, che avrebbe segnato profondamente il volto della vecchia città.
Verso il dieci agosto si ritrovarono alla consueta riunione tra Società e Contrada in merito al Palio, che di lì a breve si sarebbe corso. I due amici erano riuniti nella sala del museo:
“Allora, Senio: io avrei un’idea. Aspetta però prima di giudicarla. Hai presente la Emervon?”
“La marca di cellulari, dici?”
“Sì, quella dove lavora mio fratello al megastore di Milano.”
“Certo, ce l’ho anche.” Mostrando il suo telefonino.
“Loro sanno che mio fratello è di Siena, che è della contrada insomma. E sanno del Palio; ma così, a grandi linee.” Senio lo seguiva.
“Allora: lui ha parlato con l’amministratore delegato della zona, il quale ha una proposta; proposta che però viene veramente dall’alto – sgranando gli occhi per far capire che era davvero importante – Lui non sa di tutte le nostre magagne col Consorzio per la tutela ecc ecc, sicché ha solo chiesto informazioni; ma ovviamente siamo liberi di dire di no.”
“Ma ha chiesto cosa?” Senio era sempre più curioso, mentre l’altro tergiversava.
“Di mettere un logo.”
“Che?” Non capiva.
“Sì… un logo, ma piccino. Un logo della telefonia.”
“Ma dove?”
“Boh, pensavano nel coso… dai. Nel coso, nel giubbetto magari.” Dicendolo a bassa voce.
“Ma stai scherzando?” E si mise a ridere.
L’altro fece un respiro profondo:
“Ascolta me: se si riuscisse a trovare il modo di aggirare il Consorzio e bypassare la contrada…”
“Lippo per favore…”
“Lo so che sembra di svilire chissà cosa. Ma pensaci bene: tutto è già sponsorizzato. Lo dicesti te, no? Fosti te a sostenere di come ogni cosa venga messa a profitto, venga prezzata. E dicesti che ci si può far poco.”
“Io…” Ma l’altro non lo fece finire.
“Guarda io l’ho capito il tuo discorso. Se il lavoro è merce e il lavoro e il motore dell’attività umana, è ovvio che divenga merce ogni altra occasione che gli gira intorno. Io lo so. E ho capito anche le posizioni romantiche di Bernardo e di tutta una città che come lui non accetta il cambiamento, eppure ci nuota. Che pontifica sulla tradizione. Ma la tradizione è un’invenzione! Tu stesso hai detto che non si può invertire un processo sociale a meno di una…. rivoluzione, no? Dai allora, non mi pare la rivoluzione sia all’ordine del giorno. Sfruttiamo la cosa invece di piangerci addosso o proporre soluzioni drastiche e velleitarie. O utopiche!” Senio stava zitto perché lo credeva impazzito. “Sono trent’anni che vengono venduti i fazzoletti, i ‘mitici simboli dell’appartenenza’. Un fazzoletto è meno importante di un giubbetto? E le bandiere? E’ tutto così ormai. I pacchetti per il Palio un tempo fecero scandalo perché sembrava che i turisti venissero a vedere fenomeni da baraccone. Oggi sono la norma. Domani sarà la norma lo sponsor.”
“Lo sponsor? Non voglio nemmeno sentirti.”
“Perché, lo sponsor sulla maglia della Juve forse svilisce la centenaria storia della squadra?”
“Ah ora si paragona lo sport al Palio?”
“Non si paragona niente, ma volendo anche il calcio è un rito. E di massa.”
“Non posso essere più in disaccordo.”
“Ascolta, lo sai con quanti soldi andiamo al canape se apportiamo un piccolo logo che nessuno nemmeno nota? Ma così, guarda.” Stringendo il pollice e l’indice a cerchio.
“Sentiamo, quanto?” Lippo si alzò dalla sedia e sussurrò la cifra all’orecchio dell’amico, che in effetti inorridì.
“Così tanto?”
“Ragionaci invece di restare aggrappato a una ciambella già affondata: il Palio è mondiale ormai, con tutto ciò che ne segue. A Siena nemmeno se ne accorgeranno, tutti presi a guardare le fasi della Mossa. La mattina del Palio presentiamo un altro giubbetto; e appena corso lo facciamo sparire. Ma stai pur certo che se loro offrono questa cifra sono sicuri che qualcuno lo noterà. Lo dici te, no? Senza profitto non c’è nessuno che investa. E se tutto ha un prezzo, Palio compreso…”
“Sì, sì, lascia perdere. Lo so cosa ho detto. Però è da banditi fare così, fa schifo veramente. E’ di una tristezza immonda questo svilimento.”
“Lo sai cosa è triste? Guarda: – indicando i drappelloni della sala museale – a noi manca uno, almeno uno.” Senio deglutì pensando all’unico Palio che avevano visto vincere alla contrada, tanti anni fa, da ragazzini. Allora tutto sembrava così puro.
“Ok, facciamo così Senio. Domani avevo fissato un incontro.”
“Ah, fai di testa tua?”
“No, è che l’amministratore delegato conosce mio fratello ed è a Siena nei giorni del Palio, nostro ospite. Ci parliamo e gli portiamo le nostre condizioni.”
Senio voleva, ma non riuscì a replicare.

Si incontrarono i tre e fu come un sogno.
Senio camminava in silenzio tra le vie di una città che non conosceva più, mentre Lippo era tutto un fioccar di battute; era euforico. A un bar riparato da alcuni tigli, nell’anfratto di una piazzettina, ecco l’amministratore.
Tutto sembrava già fatto e l’uomo, bello, dinamico e che ogni poco dava una pacca sulle spalle a Lippo, tirò fuori una cartellina dove aveva redatto i termini della proposta.
Senio era stordito, confuso, mentre intorno a lui una recita di anime prendeva vita. Il mondo però gli appariva distante.
Eppure nel pomeriggio Lippo era stato convincente su come sfuggire alla “censura”, come la chiamava lui: il Comune, il Consorzio per la tutela del Palio, la contrada stessa, il Capitano, ovvero colui che lo gestisce, il Palio.
“Pensi che una volta vinto qualcuno faccia polemica in contrada? Il Capitano poi è più che d’accordo. Vuole il Palio più di tutto, lo sai.” Aveva detto l’amico.
“Te la fai facile. E se non si vince? E comunque è orrendo.”
“Non si vince? Con questa cifra?” Sorrise.

Così Senio firmò quello che era un contratto bello e buono. In cambio di una sottoscrizione esorbitante la contrada si impegnava a inserire un piccolo logo della Emervon in un pinzo del giubbetto. In effetti si nota a malapena, pensò Senio deglutendo a fatica. Però c’era!
“Che ho fatto!” Disse una volta andato via l’amministratore d’azienda.
“Hai firmato la nostra vittoria. E vaffanculo il purismo. Mica smettiamo di voler bene alla contrada. E poi, appena finita la corsa, si sostituisce subito.”
Senio si sentiva male.

Bernardo non si vide per tutto il Palio. Senio provò a chiamarlo perché il senso di colpa lo mangiava; ma l’amico non rispondeva più, nemmeno il giorno della corsa, che alla fine arrivò e rapì tutti come sempre.
La sette di sera.
Senio si avviò al palco dei Priori da dove avrebbe visto la carriera; si sentiva la febbre. Ecco le contrade uscire dall’Entrone, eccole al canape. Da dov’era lui guardava il giubbetto che da lì appariva “intatto” come sempre.
E il canape poi… la contrada era sola, un metro a destra uno a sinistra, nessuno intorno a strizzarla; segno che il fantino stava spendendo bene la montagna di soldi a disposizione.
Come sempre la corsa arrivò improvvisa come un volo, conosciuta eppure tutta da scoprire; e fu come un’incredibile visione. La vittoria, per tanti anni a loro preclusa e impossibile, ecco che si faceva limpida sull’anello di tufo; la vecchia contrada adesso volava sola, balenando nel tramonto.
E quell’emozione che sapeva di vita fece scordare le lotte intestine, quei discorsi petulanti sul Palio, l’ultimo tradimento.
Non era quella la città di sempre?!? Con la torre roccata di bianco a fare da guarda, e la Fonte perpetua, lo slancio degli stessi rioni.
Vinsero! La gioia, il pianto, la contrada a festa. Lippo, il Capitano, Senio… tutti stretti nell’abbraccio che dopo decenni si scioglieva in un qualcosa di epico.

La notte del trionfo suonò come la fine di un’era; tutte le paure di Senio sembrarono svanire, il loro azzardo aveva funzionato e niente poteva fermarli. Il bene della contrada, la vittoria – ora lo pensava – va avanti a tutto. Ce l’avevano fatta! E poi mica posso cambiare il mondo.
Cercava di convincersene e se ne convinse fino alle prime luci dell’alba.
Allora abbandonò la contrada, perché voleva dormire almeno un’ora prima di iniziare il Giro della Vittoria nel saluto alle consorelle. Il rione frattanto era ancora gremito da un fiume di gente; molta sconosciuta, eppure Senio sentiva di voler bene a ognuno.
Infine, ebbro d’alcol scese la via e nel cielo che si faceva chiaro, a un tratto notò una piccola nube, come… una macchia. Una macchia! Pensò.
Allora, come un rigurgito, un certo timore prese vita e lo scosse.
Quel marchio, quella macchia sul giubbetto così insignificante da non essere notata da nessuno adesso era comunque difficile da lavare. E poi perché? Perché udiva quella voce?
“Non è in cielo, né sul giubbetto.”
“Chi è?” Si voltò di scatto ma la strada era deserta, solo il fruscio delle bandiere finalmente invitte.
“Non è sul giubbetto.” Ripeteva quel sussurro. Senio ebbe paura. Poi, con l’orrore in voltò atterrito accasciandosi al muro:
“Lo so!” Disse a voce alta, stralunato. Non c’era nessuno, eppure lui sapeva chi lo stava chiamando. “Dove sei amico mio? Sei tu?” Piangeva e cercava Bernardo nei vapori violacei del mattino. Perché quella voce, reale o solo immaginaria, era la sua.
“Lo so, Bernardo – diceva tremando – Lo so, la macchia è sulla nostra anima. L’abbiamo venduta.” E dopo la voce udì i passi. Il vecchio amico scordato ora lo rincorreva come uno spettro. Non aveva capito la dinamica del cambiamento, proponeva cose stupide, dettate dalla pancia, da chi non conosce e vive d’istinto. Eppure era rimasto coerente, come del resto Lippo.
Senio adesso aveva paura.
“Ma io non potevo essere come loro. Dovevo capire!” Urlava al vento una volta giunto in una Piazza deserta. Ed era vero: aveva capito. E capendo si era arreso.
Corse lontano, prima verso la Fonte, poi nella scesa terribile che poche ore addietro aveva visto il loro trionfo; ma la vergogna lo sovrastava e anche la bandiera della contrada, solitaria sul Palazzo Pubblico sembrò assumere una tinta paurosa. Prima scarlatta grondante sangue, infine nera. E quello che divenne un sudario si gonfiò enorme come una vela spiegata, verso di lui! Intrappolato, cinto, strozzato…

Senio si svegliò in apnea! Madido di sudore, boccheggiando, guardandosi infine nello specchio a muro nei suoi sedici anni di ragazzo.
Cosa aveva visto? Cosa era stato? In quale grezza danza onirica era precipitato lungo un’interminabile notte?
Un bicchier d’acqua gelata che inghiottì in fretta, poi i vestiti; cercò il borsello per uscire e si ricordò di averlo lasciato al piano di sopra il giorno avanti, accanto al PC. Iniziò a salire le scale ma si arrestò subito. Aveva paura di andare in soffitta e trovarci qualcosa di strano, di vecchio, di nuovo: un libro che gli avrebbe svelato un’amara verità.
Così corse fuori trafelato, sapeva dove voleva, dove doveva andare. La città rossa era ancora splendida con le sue case fitte nelle strade, accoccolate le une sulle altre come tante bandiere. E il vento sui cittini a primavera, giugno e la sua adolescenza, il Palio alle porte.
Ecco la contrada, la stessa di sempre! Quasi pianse quando vide nei giardini i suoi amici a parlare, immersi nelle loro diatribe come sempre.
Lippo e Bernardo…
Senio li guardò come li scorgesse già grandi; e tornò alla mente il lungo sogno sul futuro. Loro ormai corrotti dal tempo, mangiati dagli eventi, l’incubo di una vecchia città morente.
Chi aveva ragione? Chi torto? Si poteva ancora cambiare qualcosa?
La botteghine erano già scomparse, davvero. Ma il resto? Non sapeva niente, né gli importò.
Vide soltanto i suoi amici ancora ragazzi, ancora pronti a calcare la via stretta della vita. E le strade del mondo. E le viuzze della loro piccola città rossa che aveva nome Siena.
“Beh”, chiese Lippo. “Hai visto un fantasma?”
“Ma cos’hai?” Rise Bernardo.
Lui li cinse allora, abbracciandoli forte.
“Vi voglio bene.”

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Credo che l’uomo viva nel bisogno di raccontare e ascoltare storie: la propria, quella degli altri, quella di un dio. Così da sempre, forse per sempre. Probabilmente il non-senso della vita è racchiuso nel paradosso della scrittura: possedere estrema chiarezza ed estrema finzione al tempo, così che nelle sue affascinanti acque d’inchiostro non ci si stanchi di nuotare. Almeno a me fa questo effetto

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