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Minimali Arrosti

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Ipparchia: la società dell’ozio

16 Gennaio 2018

“Nella società liberata non esisteranno pittori,
ma tutt’al più uomini che, tra l’altro, dipingono anche.”

K. Marx

 

Ho camminato, io solo in tre secoli, sui ciottoli giada di Ipparchia e lungo le Foglie sospese. Lontane, le torri immense di Ontario. Le luci ibride di Rigel al tramonto facevano correre la pace sulle Colonie.
Io solo del “vecchio tempo” ho veduto macchine finalmente vinte nella loro rozza potenza, poste docili al servizio degli uomini.
Dopo la guerra perduta, gli stessi che un tempo avevano abitato il continente in mezzo agli oceani, confitti per decenni nelle montagne, a poco a poco erano sbucati fuori come narcisi a primavera, ricostruendo la vita, le città, quel mondo che abitava solo nelle nostre leggende. Ed io lo vidi!

La concatenazione architettonica di anelli concentrici, così come la osservai dalla catena montuosa, rendeva ogni agglomerato autonomo, razionale, ordinato. Sfavillavano i raggi splendenti dei Bruchi che saettavano nel quarzo, inabissati tra le sabbie verso le altre città; all’interno viceversa si snodava il formidabile reticolato sotterraneo per il trasporto di beni e persone, poi gli isolotti galleggianti e i quartieri residenziali, sino agli anelli profondi del centro.

Nel “vecchio tempo” (come chiamavano il nostro mondo), avendo simulato per me stesso gli altisonanti ruoli di poeta e scrittore, non avrei immaginato niente di più incredibile da poter cantare con odi e romanzi; giunto lì, pur con gli occhi zuppi di tale ronzante meraviglia, ebbene, non sapevo scrivervi niente. Fu questa la prima dannazione.
In effetti piangere parole sulle cattedrali devastate dalla guerra e i tetti rossi sbilenchi di assurde città medievali era stato semplice bisogno, talento immediato. I ponti malfatti, i muri rosi e senza intonaco. La miseria dei viventi e ogni superstizione qua e là che ci consolava dal dramma della Storia: avevo divorato con la penna ogni miseria.
A Ipparchia non v’era però il verso proiettato al “domani migliore”, il verso per fuggire, il verso per struggersi. Si viveva un’incredibile pace; cantare l’ovvio e la lode al bene era banale, inutile. Tutto appariva era terribilmente perfetto.

Poi la conobbi, Clodie si chiamava. Bionda, coi capelli rasati sulla nuca e le trecce ammantate sul capo come voleva la loro bizzarra moda. Lo sguardo abbacinante, due mani bianche e sottili.
Aveva studiato il nostro modo di vivere e il vecchio tempo (l’unico obbligo che avevano da ragazzini). Così nel primo mese in cui arrivai, durante le nostre lunghe camminate sui ponti pensili, mi spiegò di come oltre all’obbligo del lavoro, fosse scomparsa addirittura ogni architettura familiare; dopo i tredici anni i bambini vivano da soli nelle Foglie, gli immensi centri per la crescita delle Colonie. Non esisteva la scuola poiché “insegnare qualcosa è come versare acqua sulla pietra.” Sosteneva con assurda semplicità. Assurda alle mie orecchie, s’intende. “Scompare subito quel sapere, essendo imposizione.”
Esisteva il gioco perenne per i ragazzini e l’autoapprendimento avveniva grazie ai Pannelli del sapere, piccole colonnine costellanti le Foglie e gli altri spazi di Ipparchia dove i bimbi si nutrivano di ogni nozione possibile. Certo, c’erano gli accompagnatori, che noi chiameremmo maestri: vivevano coi bimbi durante crescita e ovviamente erano vocati a farlo. Lo volevano per educarli all’autonomia.
“Nessuna imposizione.” Mi ripeteva, come a frenare qualsiasi mia obiezione ulteriore, figlia di un pensiero che sempre più mi appariva incrostato.
Questa umanità così rilassata e semplice al tempo, era comunque sfuggente ai miei occhi crudi e spigolosi da vecchio pioniere. Provavo a descrivere qualcosa a Clodie, a raccontargli di qualche magnificenza del mio tempo, eppure ogni frase era interrotta con garbo, a farmi notare come tutto nel vecchio mondo nascesse dal dramma del bisogno. La odiavo per quella sua verità. E mi odiavo.
Sfruttamento, sopraffazione, invidia sociale, ingiustizia. Ogni cosa scomparso.
“Addirittura il merito non esiste!” Bofonchiavo. “Nel mio paese è la base a cui dovrebbe tendere ogni ordinamento sociale, ogni esempio umano. Cosa c’è di sbagliato?” Clodie continuava a sorridere.
“Il merito è comunque un livellamento, è una costrizione. Ci si conforma a una legge ove bisogna emergere per avere il necessario alla vita. Se i bisogni sono invece soddisfatti inizialmente vi sarà poi una libertà assoluta dell’individuo: di inventare, di creare, di curare, di non far niente anche. Che posto può avere il merito nella libertà?”.

Ogni dettame, ogni legame era veduto come un attacco all’autosviluppo personale. Ci fermavamo nelle nostre passeggiate sotto i larici per ammirare lontano prima dei monti il tramonto rosso sulle picche di Ontario. Lei mi baciava, chiedendomi coi suoi discorsi di essere libero, di lasciarmi andare e dimenticare. Ero felice, eppure frastornato; ma pian piano mi innamorai. Furono i miei giorni meravigliosi a Ipparchia. Allora ripresi a scrivere poiché l’amore riempiva la mancanza d’ispirazione da poeta che mi aveva sconvolto inizialmente in quella magnifica “città ideale”. Poesie su poesie, che le decantavo la sera tra i cerchi delle Fattorie, le cupole adibite alla produzione. Lei rideva senza farmi capire se le piacessero o meno.

Passarono sei mesi. Da un giorno all’altro se ne andò senza darmi giustificazione alcuna. Ecco finalmente (si fa per dire) qualcosa di conosciuto e universale: le sofferenze d’amore. Eppure nelle nostre passeggiate era stata sin troppo eloquente. Dovevo stupirmi? I legami erano diversi rispetto “a prima”, diceva sempre.
Adesso trascorrevo giornate identiche e in principio condite di noia nella Piazza del Tempo, il grande centro di Ipparchia. Rimuginavo e cercavo di immaginare qualche racconto, da scrivere supino sulle poltroncine della piazza, sotto gli schermi ardesia dove scorrevano immaginifiche opere pittorico-musicali.
Cos’era l’amore per loro? Evidentemente un momento come un altro. Da assaporare senza impegno. Libero. Come odiavo adesso quella parola!
Perfino la mia putrescente società, quella che aveva portato alla guerra, alla distruzione. Perfino il vecchio mondo del profitto e dello sfruttamento mi suonava migliore: perché almeno lì avevo conosciuto l’affetto del focolare di una casa. Sempre quella, senza cambiarla come invece erano soliti fare qui ogni mese, di quartiere in quartiere, di città in città! Nel vecchio mondo il sentimento d’amicizia almeno era solido. Qui ognuno appariva amico di tutti, ma avevo il sospetto che alla fine fossimo soli. E gli anziani erano prìncipi nelle loro pensioni dorate, nel vero senso della parola, e i bambini accuditi e cresciuti in libertà. Ma io non avrei potuto vivere, almeno da ragazzo, senza sentire mio padre ogni due, tre giorni. Mettere al mondo un figlio senza stargli dietro almeno vent’anni? Che assurdità!
In realtà fingevo di non vedere la loro felicità e mai sarei tornato indietro. Ma una parte di me li odiava poiché odiava ciò che non capivo, ciò che non mi veniva naturale. E odiavo Clodie, naturalmente.

Fu solo dopo un anno di ricerche. Un anno di quella vita che a poco a poco si fece naturale e infine serena: lei riapparve. Era tornata dopo aver soggiornato per sei mesi a Rigel e altri sei a Lothering, la città immensa coronata d’alberi alle pendici del Naska Peshua. Facevo il bagno su un isolotto presso la diga, lei era in acqua. Mi si avvicinò spaventandomi, poi mi baciò.
“Ciao.” Come ci fossimo visti ieri.
Tutto il giorno insieme fino al tramonto, poi a cena nei parchi presso le Cupole e dopo a casa mia, una abitazione costruitami su misura in un quartiere dell’ultima cerchia.
Altri due giorni in casa, a letto più che altro. Ma non ero felice e se ne accorse.
“Ho paura tu mi lasci di nuovo.” Balbettai.
“Lasciarsi? Ma non esiste questa parola.” Rispose reclinando il capino biondo, da uccello.
“Non esiste perché non esistono legami, vero? Dunque, come lasciarsi?” Ribattei amaramente ironico, con le lacrime agli occhi.
“Non esiste il bisogno, nemmeno il bisogno dell’altro, capisci?” La odiai di nuovo e volevo ma non sapevo ribattere.
Fu così che calai il mio asso. Avevo talmente paura se ne andasse, talmente orrore di quella sua libertà che decisi di farla innamorare con le mie poesie. Potevo essere più ingenuo? Eppure quel pensiero ne partorì un altro e fu come un lampo rischiaratomi in testa: capii che qualcosa mancava! Una sola cosa di me, uomo del vecchio tempo che non possedevano. Non potevano: l’arte. L’arte che non ero riuscito a esprimere, ma che ancora ardeva nel palpito del mio petto.

Due giorni dopo, quand’ebbi il sentore che di nuovo Clodie partisse le diedi una decina di poesie scritte la notte avanti. Argomenti sparsi, dall’amore alla libertà, ai paesaggi immaginifici delle Colonie che adesso mi ispiravano davvero una sovrumana meraviglia.
Le lesse, mi sorrise e stavolta quel velo di compassione che pure avevo avvertito altre volte si fece pronunciato.
“Non ti piacciono?”
“Sì, certo.” Balbettava.
“Al mio paese ero un artista.” Dissi ostentando orgoglio, ma lei non capì. Finalmente! Finalmente c’era qualcosa che non comprendevano: l’arte.

La lasciai lì su due piedi, colmo d’ebrezza poiché tra i cristalli di Rigel come sui torrioni di Ontario e nei prati verdissimi di Ipparchia, in ogni landa del nuovo mondo a cui io solo ero approdato nei secoli ecco scovarvi una prima frattura. Non potevo andare orgoglioso di nulla del vecchio tempo, non dell’organizzazione sociale che agli Ipparchi appariva giustamente schiavile, non potevo nemmeno dir loro di essere stato un buon padre e un buon marito (e cazzo lo ero stato!). Semplicemente non capivano, anzi peggio, non sentivano quel bisogno prima naturale e poi sociale. Così avevo vissuto ottimamente ma con un tarlo comunque a rodermi, sperando che potessi vantarmi almeno di una, una sola misera cosa del vecchio mondo che comunque era il mio. Non la patria o la terra, concetto ovviamente sconosciuto alle Colonie, ognuna in pace con l’altra con milioni di abitanti che si spostavano dall’oggi al domani; non la famiglia, che qui era più che altro una porta verso la vita e non un controllo. Persino l’amore per come io lo provavo me li faceva sentire estranei. Ed ecco invece, pura come un’alba la rivelazione. L’arte! L’arte era loro preclusa. Come avevo fatto a non capirlo?!?
Leggevo le mie splendide poesie a Clodie e lei ne restava interdetta.

Mi avevano ingannato poiché avevo letto eppure sull’alabastro delle colline o impressi sui muri di case e viali alcuni versi splendidi. E c’era un fascio di inarrivabili melodie che ogni giorno come un effluvio invadeva la Piazza del Tempo tramite i grandi pannelli. E sugli stessi, incredibili tinte pittoriche. Ma era tutto automatico; cos’erano quelle musiche se non piccole e ritmate rapsodie create dalle macchine?!? Anche le scritte intermittenti sui muri dovevano essere generate automaticamente. Splendide e inarrivabili, certo; per questo disumane!
Capivo tutto e adesso bramavo la pittura angosciante dei vecchi tintori e le sinfonie pompose e ingenuamente fuggenti la morte. Volevo cantare le mie odi malferme, invece ecco gli odiosi automi che avevano tolto l’incombenza del lavoro, che provvedevano a ogni bisogno, che sradicavano ogni malanno affinché la vita fosse ultracentenaria per tutti; ma allo stesso tempo le stesse macchine toglievano la debolezza che sorge nel cuore d’artista e il suo bisogno di splendore. Non erano privi d’empatia gli Ipparchi, non erano freddi, tutt’altro! Anzi ti accoglievano calorosamente ed eri veramente amico di tutti, amante di tutti. Non esisteva solitudine. Ma è tutto falso! Tutto costruito! Pensai esultando.

Lo avevo capito da quei sorrisi di Clodie. Sorrisi in cui io apparivo stupido, rozzo, ignorante. E invece lei lo era! Com’era frivola senza capire la poesia! Corsi, corsi a perdifiato lungo le Foglie declamando le mie romanze a gruppetto di bimbi che si acchiappavano, soffermandosi infine a guardarmi come si guarda uno sciroccato; scesi alle case scegliendo un piccolo velomobile azzurro, lanciato attraversavo quei quartieri di gente odiosa, pezzi di carne senza cuore. E ancora lanciavo i miei versi a tutti.
“Che ve ne fate di una macchina che lavora per voi, cosa di un vestito nuovo, se non avete i pittori?!”
“Che ve ne fate di un costume da bagno o di una casa ogni mese diversa se non parlate alle luna?” Ridevo, marcio di vita come un ubriaco. “Si può essere facchini, ma almeno si sarà anche poeti!” I loro occhi sorridevano. Sempre. Li detestavo.
Mi spostavo verso i cerchi posteriori, poi ai corsi fluviali, nei reticolati sotterranei; passai la giornata fermando le persone, parlando del mio mondo senza più alcuna vergogna.
“Potete vivere senza famiglia ma non senza arte!” E sottoterra ore ed ore, sui ponti pensili, sopra alle vasche d’acqua dolce da dove era visibile lo scintillio dei palazzi di Ontario. Ma tutti gli Ipparchi, invece di mostrare indifferenza o stupore mi guardavano con dolcezza. Eppure lo vedevo, Cristo! Erano rapiti dalle mie parole, non avevano mai conosciuto un poeta.
Cosa sapevano del rantolo del barbone, del disagio delle comete in una notte di tempesta, del tradimento d’un amico per la donna fatale? Cosa sapevano della nuda follia affamata di vita e del cane uggiolante sulle proprie costole patite? Il mio mondo che adesso mi tenevo stretto portava dolore e arte al tempo stesso. Tenebra e luce. Perfino la guerra che ci aveva maciullati, da cui a differenza loro non avevamo imparato nulla, ricostruendo le stesse identiche città avvelenate, le stesse odiose gerarchie, la schiavitù del lavoro adesso mi appariva splendida se potevo rimare sul rombo di un bombardamento. Se avvertivo dentro il dolore della patria in fiamme. Se riuscivo a scalpellare nel marmo il duro cuore di una madre uccisa sulla strada col suo bimbo scianguinante a fissarla.

A fine giorno ero esausto. Presi un nuovo velomobile e rifeci la strada indietro. Volevo fermarmi nella Piazza del Tempo per scrivere qualcosa, un racconto, l’abbozzo di un romanzo. Ecco sì, un romanzo. Il protagonista che come me aveva percorso lande desolate per raggiungere l’utopia. Un’utopia che per quanto sognata non è mai compiuta. E resta dunque tale. Sarei tornato nel mio mondo? Non prima di aver letto ai coloni la mia opera. Mi vidi invitto nel tramonto al centro della incredibile Piazza, avendo fatto tacere le ridicole macchine che riproponevano affreschi, componevano melodie, scolpivano, costruivano interi quartieri. Silenzio! Qui adesso parla l’uomo.

“Eccoti!” Era Clodie, mi aveva trovato e mi venne da ridere.
Mi portò a casa, ci lavammo, facemmo l’amore e dopo, stordito dalle mie rivelazioni, continuai infinite teorie sulla loro asetticità e su come fosse così ben mascherata di vita. Su come la serenità di Ipparchia, che pure era vera (lo ammettevo!), fosse comunque manchevole. Rembrandt, Rimbaud, Rodin, me stesso! Persino il mio piccolo poeticare valeva infiniti allori di fronte alle loro meravigliose composizioni automatiche e perciò fasulle! Su cui ignari posavano gli occhi nella Piazza del Tempo senza nemmeno goderne peraltro.
Il mio monologo si interruppe per cena; mangiammo con gusto carne e frutta di incredibile dolcezza; mi sentivo libero e per la prima volta andavo fiero del mio vecchio mondo. Raccontavo l’oscurantismo cristiano, certo, ma anche la bellezza dei temi religiosi di Michelangelo; la fame contadina, ovvio, ma che aveva ispirato Van Gogh; i tradimenti cantati da Shakespeare, l’ipocrisia della famiglia borghese dove però nascevano le pagine di Madame Bovary. Mi compiacevo di me ridacchiando, narrandole i nomi dei grandi del vecchio tempo.

Finalmente parlò lei:
“L’amore, pensava, doveva manifestarsi di colpo, esplosione di lampi e fulmini, uragano dei cieli che si abbatte sulla vita, la sconvolge, strappa via ogni resistenza come uno sciame di foglie e risucchia nell’abisso l’intero cuore.” Restai a bocca aperta.
“Madame Bovary…”
“Certo. Te lo detto che da ragazzini abbiamo studiato com’era prina. E devo dire che qualcuno tra miliardi di voi riesce a fare delle cose gradevoli.”
“Gradevoli?!?” Divenni livido in volto.
Clodie mi accarezzò e ci addormentammo senza dire altro.

Al mattino, un mattino splendido di un sole rosso su Ipparchia, la ragazza era in piedi davanti a me, una tuta bianca che la fasciava tutta e la solita crocchia intrecciata in testa.
“Vieni, ti mostro una cosa.”

Il sole splendeva dietro la diga, noi ci dirigemmo alle Foglie dove già centinaia bimbi correvano in gruppetti, alcuni fermi ai Pannelli del sapere, i più piccoli con le madri, gli adolescenti assieme agli Accompagnatori. Altri ancora nascosti dietro le acacie ridacchiavano per le prime effusioni amorose.
“Vieni qui.” Disse Clodie a un biondino, otto o nove anni, una frangetta da maresciallo e il vestitino rosso sporco d’erba.
Clodie azionò il dispositivo che aveva in tasca; dapprima sentimmo un ronzio, poi ci voltammo a una colonnina appena emersa da un piedistallo sul prato. Uno schermo bianco.
“Come ti chiami?”
“Elia.”
“Ciao Elia. Senti, ti andrebbe di raccontare sullo schermo a me e al mio amico – indicandomi – come ti senti oggi?” Raccontare sullo schermo… che assurdità, pensai.
Il bimbo passò le mani sul pannello ed emerse ologrammata una tavolozza di colori. Premette con le dita, dapprima piano poi pizzicando sempre più veloce, ora su di una tonalità, ora su un’altra. Volteggiando coi polpastrelli, a occhi chiusi sulla tela virtuale. Cinque minuti ed ebbe finito.
“Cosa hai fatto?”
“Alcune immagini pensando ai miei amici, al mare di Lothering dove sono stato ieri. E la cosa che più amo di Ipparchia: il succo di mirtilli.” Ridemmo.
“Grazie Elia, ora torna pure a giocare.”
Rimasi in silenzio senza capire, mentre Clodie scendeva la grande scalinata verso il centro.
“Dai vieni. E muoviti!” Ancora il suo sorriso semplice. Pochi minuti dopo eravamo nella Piazza del Tempo.

Clodie si portò al computer del grande pannello digitando qualcosa di incomprensibile. Ed ecco il disegno a tutto schermo sui palazzi, uno dei tanti che apparivano ogni poco, accompagnato da una musica splendida. Il vortice di una farfalla sulla sabbia, il cobalto del mare rigonfio di vita, pennellate sfuggenti di un paesaggio e poi un altro e un altro, infine alcune tinte vermiglio. La musica di sottofondo. Una musica come mai io ne avevo udite.
Clodie sorrise indicandomi l’altura delle Foglie.
“L’ha… l’ha fatto lui questo? Il bambino?”
“Imparano quasi tutti a suonare a tre anni, più o meno. E moltissimi dipingono. I quadri che vedi nella grande piazza sono i quadri dei bambini. Si possono ordinare poi e vengono stampati, volendo. C’è un grande archivio sai. Coi pannelli è semplice, come hai visto. Ma dentro ai capannoni ci sono decine di stanze coi vecchi strumenti, volendo con le tele. Ovviamente sparse per la città ci sono statue, mostre di pittura, sulle colline non hai letto le decine di poesie?”
“Pensavo fosse tutto opera delle macchine.”
Lei fece spallucce.
“Sono nostri. Le macchine controllano i traffici, costruiscono le case, producono beni, operano negli ospedali. Ti pare poco?” Sorrise di gusto e mi struffò i capelli.
“E quanto vale quest’opera del bambino? Cioè, avranno valori diversi a seconda dei gusti delle persone.”
Di nuovo rise.
“Vale l’idea che ha un bimbo, quel bimbo dell’amicizia. E del succo di mirtilli. Lo vuoi per casa tua? Viene stampato e lo prendi.”
“Ma non tutti hanno talento! Non tutti!” Obbiettai irritato.
“E non tutti dipingono infatti. Molti non fanno niente. Niente di niente. Bello no?!? Invece tanti altri sì. Ognuno ha tempo per esprimersi; chi assiste i ricoverati negli ospedali, chi progetta cose ogni giorno nuove, chi fa l’accompagnatore dei bimbi, chi studia, chi dipinge o suona; ma non sono mestieri, sono vocazioni. E chi invece beve Malto di Rigel tutto il giorno agli isolotti senza far niente. Mica tutti sono felici, ma almeno il bisogno è stato sconfitto.” Rise, poi ridivenne seria. “Van Gogh quanto valeva nel vostro mondo? Con cosa lo pagavi?!? Col denaro, tempo di vita, giusto? Una tela per un tempo che non riusciresti a vivere in cento vite. Buffo, no?!? Eppure lui è morto per potersi manifestare. E come lui quanti poeti impazziti, quanti scultori reietti, quanti musicisti caduti giovani. Strano, non trovi?!? Sono loro i pazzi? Come dice il romanziere di quella storia così noiosa, quella di ieri? ‘Ogni notaio si porta dentro le macerie di un poeta’.”
“E’ Flaubert?” Tentennai.
“Sì.” Sorrise lei. “Solo che qui nessun poeta porta sopra i vestiti di un notaio, non sappiamo cosa sia un notaio.” Così un brivido mi raggelò ed ebbi paura di chiederlo.
“E un poeta?” La ragazza prese dalla tasca quello che somigliava a una piccola striscia di silicio, ma di certo era un materiale diverso. Col dito tracciava freghi sul ridotto display. Scriveva? Poi mi baciò in bocca e se ne andò di nuovo, come ormai era solita fare.

Cos’ero nel mondo dunque?
Ogni certezza sfuggiva e mi parve di capire come nell’uomo liberato dal bisogno non era la fine della Storia,viceversa era l’uscita dalla Preistoria. I coloni, che avevo creduto stupidi e viziati nelle loro comodità materiali erano invece liberi di dedicarsi alla vita. Di filosofare, di amare liberamente, di correre, di essere sempre curiosi come bimbi, di lasciarsi e riprendersi. Di oziare, soprattutto.
Ed ero certo provassero terrore e fascino di fronte al cosmo e all’inspiegabile miracolo della vita. L’estasi per l’alba nascente, così come la mestizia per la dipartita di ogni essere umano. La poesia di Clodie parlava anche di quei sentimenti, poiché non solo io, ma anche gli Ipparchi era ovvio li provassero; ma erano sentimenti finalmente vividi da pensare, liberi da vivere, veri. C’è bisogno di dirlo? Quelli di Clodie erano i versi più belli mai letti.

Corsi al primo distributore a prendere del Malto di Rigel, tre boccali che tracannai poiché a differenza loro non lo reggevo bene e volevo stordirmi; finché non mi addormentandomi su un prato, risvegliandomi al mattino in una delle casine ai piedi della cerchia prima della Piazza. Attorniato di bimbi che volevano uscire a giocare.
Mi ricordai delle ore prima. Il poeta, l’artista, il pittore, quali assurdi privilegi nel vecchio mondo. Quali penose condanne per sentirlo, quel mondo!
Qui lo erano tutti e non lo era nessuno. Fu allora che capii quella vecchia frase del mio tempo letta chissà dove nei libri polverosi: “Nella società liberata non esisteranno pittori…” Io l’avevo sempre creduta assurda.

Se c’era una cosa che avevo desiderato sin da ragazzo per far fronte all’insensatezza della vita e della morte era quella di morire da poeta, ricordato come tale. Una specie di rivincita sul nulla.
A Ipparchia, da quel momento sarei vissuto e morto, ma da uomo.

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Credo che l’uomo viva nel bisogno di raccontare e ascoltare storie: la propria, quella degli altri, quella di un dio. Così da sempre, forse per sempre. Probabilmente il non-senso della vita è racchiuso nel paradosso della scrittura: possedere estrema chiarezza ed estrema finzione al tempo, così che nelle sue affascinanti acque d’inchiostro non ci si stanchi di nuotare. Almeno a me fa questo effetto

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