Mio marito m’è addosso, tutto dalla mia parte del letto, simile a una vecchia barca rovesciata su di una caletta deserta. Mio figlio dorme nella cameretta scialbata, io respiro pesantemente con gli occhi al soffitto, fuggiti nella penombra di travi. Uscita dal tumultuante sogno che parlava di noi due, ravveduti e pentiti amanti, mi sento perfino bene. Sono sveglia e in pace con me stessa, padrona di ogni mio passo.
Mi volto sul cuscino, voglio spostare mio marito, che non amo. Ma che di certo ho smesso di tradire. Me lo sono imposta. E ho smesso di guardare nostro figlio pensando a come sarebbe stato un altro bambino, nostro, mio e di Edoardo. Lo abbiamo deciso ieri sera di chiudere.
E’ vero, è vero, lo so e me lo ridico: “Quante volte Emma ti sei trovata a formulare piani e propositi? Quante volte a disfarli?” Ma stavolta è diverso. Stavolta, sorrido, ho preso in mano la situazione definitivamente.
Non possiamo essere felici senza cadere nelle lusinghe dei ricordi? Negli abbagli del futuro?
Ogni storia, ho letto non so dove – forse in un vecchio romanzo francese – ogni storia dura solo se proibita. Le storie impossibili sono le uniche a mettere radici poiché paura, rischio e passione non possono mai incontrare la noia. Dunque anche la nostra relazione potrebbe durare all’infinito, ma ormai ho deciso.
“Facciamo le persone adulte Edoardo.”
“Emma, ti prego. Ora so, capisco di aver sbagliato tutto scegliendo lei; ma possiamo essere felici anche così.” Mi ha detto. Come l’ho odiato, l’ho maledetto! Si è sposato quindici anni fa, io ad aspettarlo. Poi, rovinata dal rancore mi sono sposata anch’io. Ed ecco però che nelle stradine così monotone e inutili di questa nostra piccola città oziosa, ci incontriamo sempre, come per un crudele scherzo del tempo. E dopo anni di nuovo siamo sprofondati nel tradimento, nella nostra stupida e perenne fiammella, da ragazzini. A casa in campagna dai suoi, viceversa da me quando mio figlio è a scuola e mio marito lavora fino a tardi. La mattina per un caffè veloce, corretto dai sempiterni periodi ipotetici di stucchevoli discorsi innamorati. Adesso basta. Adesso mettiamo un punto.
Sto schiumando nel letto, devo smettere di pensarci, ho messo un punto, ho detto. E non sono più sola. Sono con me stessa, l’altra me, non la bugiarda, l’amante (che parola odiosa!), una Emma che adesso esige calma e normalità. E’ sbagliato? Che futuro potremmo mai avere del resto?
Su, Edoardo, insabbiamo da bravi l’acquitrino, i nostri corpi non li abbiamo navigati abbastanza? Vent’anni! Ed io scelgo di essere più forte di lui, di noi, adesso. Qui a letto inizio a starci male e il sole appena nato fuor di finestra, di contro alle tendine arancio viene inscurito appena prendendo una tonalità vermiglio; anche questo me lo ricorda. Mi disse un tempo che il nostro colore era il rosso. Da oggi è eliminato anche quello. Cambierò tutto, perfino i gusti del gelato che in alcune domeniche prendiamo assieme in un piccolo parco di periferia, nascosti da una preziosa teoria di tigli. Gusti che sono ovviamente diversi da quelli che poi scelgo con mio figlio quando lo porto alla gelateria in piazza.
Mio marito si volta stirandosi sul cuscino. Ha capito i miei pensieri? No, ma cosa dico! Mi sposto per evitare il suo polso ma non dovrei, così mi ricompongo vicino a quest’uomo strano, anzi lo abbraccio. Da oggi lo abbraccerò sempre. Possiamo ripartire!
Devo lasciarti Edoardo mio, io, piccola Emma dovrò lasciarti, come una Bovary ansiosa che va al rovescio rispetto alla grande storia. Mi vesto in fretta, scendo di corsa le scale ed esco.
Edoardo era apparso ai bordi di un mattino, come la luce che pian piano affiora adesso e si frammenta sul Corso. Avevo vent’anni. E ogni giorno mi pareva rigoglioso di vita e perciò inutile, come dovessero essercene decine di migliaia, uguali identici. Giocando a prenderci e lasciarci. Come è potuto accadere tutto ciò poi? A furia di guidarla in modo disattento, la vita è sterzata. Ma quando? Lui con un’altra, niente di che… pensavo. Ho atteso, ho atteso. Poi ho avuto un momento con un uomo, un uomo che mi dormiva vicino fino a pochi minuti fa. Chi è in fondo? E quel momento si è fatto giorno, poi tempo, e vita matrimoniale. Un solo insignificante momento che adesso ha l’odore del tutto, l’odore sfitto d’intonaco sulle pareti di casa, la visione di piccoli quadretti di famiglia dove mi riconosco appena. Pareti che di sera si fanno mura ispessite e silenziose, perché c’è sempre stato lui in fondo a parlare al mio animo. Come un ronzio dentro una stanza cava, mentre nessuno sa di noi, di come ci siamo amati e torturati, sferzati fino all’osso senza stare insieme.
Agli amanti non è consentito altro che vivere una condizione di perenne vertigine, come sul palco un attore che balbetti dovendo in cinque minuti ridire mille battute sotto gli occhi di un pubblico esigente e accusatorio. Così ci ripariamo dietro il sipario rosso porpora, il nostro colore. Stringendo il tessuto rigonfio degli anni, per scene chiuse e sbagliate. Ma torniamo, torniamo sempre sulla scena. Che oggi è uno sguardo in un caffè nascosto, l’amplesso in un campo di ottobre, io che passo di fronte al bar dove lavora e lo bacio dal vetro, quando nessuno mi vede. Mi sento viva, anzi mi sentivo viva poiché ho deciso di finirla! Dobbiamo guarire.
Persino la città pare sorridermi adesso dopo anni, sembra non fissarmi più coi suoi piccoli occhi filistei. Abbiate indulgenza di me, chiedevo alle piazzette, ai colonnati e alle balaustre arroccate, quando nelle albe bagnate dalle pioggerelle primaverili rincasavo col suo odore ancora addosso.
Fa che non mi senta, pregavo. Mio marito dormiva, o forse fingeva. Il nappo della doccia che sistemavo affinché rilasciasse uno scroscio il più fino possibile, un bagno che avrei giustificato con un malore improvviso e la conseguente voglia di caldo. I capelli corti a caschetto, biondissimi, come li asciugavo in fretta con la salvietta! Rido nel pensarci.
Non mi prostrerò più alla vergogna, allo specchio della cameretta di mio figlio che rimanda indietro una Emma spossata, agli occhi interrogativi di mio marito. E’ finito il nostro gioco, Edoardo.
“Lo diciamo sempre.” Mi ha deriso ieri sera. Poi ha cercato di baciarmi, ma per la prima volta non ho ceduto. Si è fatto così livido in volto che uno strano orgoglio mi è fiorito in petto. Sono la più forte, mi sono detta.
“Ma questo almeno lo terrai?” Com’era tenue la sua voce. Mi ha preso il braccio toccando il ciondolo che mi ha regalato e che ho annodato al polso. Il ciondolo con la nostra lettera che bacio ogni sera prima di dormire. La nostra iniziale. Adesso mi fa male solo a guardarlo. Da oggi lo toglierò, è certo. Lo getterò in una fonte torbida dove non possa vederlo posarsi sul fondo. Che scompaia!
Eccomi in un negozio, copro il ciondolo con la manica della camicia. Venti minuti e ho comperato un cappotto blu oltremare. Basta col solito rosso, la tinta della passione, del vino feccia, la sanguinolenta idea di un mattatoio: il nostro amore. Ho chiuso.
Alcuni bambini frattanto corrono lungo la corolla di pietre che cinge la piazza, d’inverno molle come un canape sfilacciato. Orfana di noi, ormai. Ed ho il magone.
Cammino per un’ora, dio mio, sono nella strada del bar di Edoardo. Eppure giuro che ci sono arrivata senza pensarci. Sono felice? Mi specchio in una vetrina a venti metri dal bar. Questo cappotto azzurro… mi sta bene? Forse… forse lo cambierò.
Corro indietro al negozio, il suo turno sta per finire e devo fare in fretta.
Eccomi di nuovo per quella dannata strada, mi stringo nelle spalline, col capo chino tra palazzi nuovamente ostili. Il ciondolo dov’è?
Eccolo, eccolo. Va messo in evidenza, sistemato sopra il polsino, così. E poi il vestito che ho appena cambiato, gli piacerà? E’ rosso. Dopotutto è il nostro colore.
Entro nel bar.
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