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In Impressioni

Psichedèlia di Mescala: luci e ombre di un cantore errante

21 Novembre 2017

 

“Scende l’oscurità e noi siamo felici, non vedi
quanta sensualità ci perseguita?!?”

Bambini Cattivi

 

Il disco

La notte su tutto e con lei una lieve evasione portata dall’alcol, la voglia di evasione vera poi, dentro la vita, nel mondo. La ricerca di un senso all’interno dell’amore.

Di questo parla il riuscito disco di “Mescala”, al secolo Giacomo Francini, cantautore senese nel novembre 2017 al primo lavoro da solista. Un’opera pop, non c’è dubbio, apparentemente immediata e dal facile ascolto. Un disco d’amore di primo acchito. In realtà in Psichedèlia c’è molto di più, in esso vive un intero mondo poetico, filosofico, profondo. C’è il tentativo di fermare il tempo nel momento principe in cui tutto è immoto, la notte, nel momento principe in cui tutto è concesso, la gioventù; c’è il bisogno di indagare l’universo femminile che sottende a un altro bisogno più profondo, l’indagine di se stessi, nella fattispecie del protagonista le cui canzoni, non a caso, sono in prima persona.

Un disco concettualmente compiuto, dove accanto alla freschezza del primo lato, si accompagna una seconda parte più oscura, deviante, dove le sfumature di solitudine e incertezza, abilmente celate nei primi brani, rischiano di ispessirsi fino a travolgere l’intera impalcatura amorosa ed esistenziale del nostro.

Le molteplici influenze musicali dalle quali Mescala attinge sapientemente a piene mani (dal Brit-Pop al cantautorato italiano, fino ai frammenti retrò anni Sessanta) sono accuratamente studiate per dar linfa a un’opera che cerca in tutti i modi, riuscendoci infine, di essere matura, indipendente, con una propria personalità e una storia musicale da vivere ma soprattutto comprendere. Tra la fotografia del reale e l’introspezione si snoda questo lavoro che ha il pregio di tenerci compagnia ma solo fino a un certo punto (letteralmente); fin dove l’ascoltatore, nel secondo lato, non si trova immerso in qualcosa di diverso, di straniante e poetico. Un mondo fatto di una gioia dolceamara, di viaggi ma solo accennati, di verità fatte di maschere. Di amori che esistono solo nella dimensione notturna, forse onirica.

Se il disco riesce a lanciare un preciso messaggio, ovvero che non esiste una verità ma esiste solo la ricerca di essa, Mescala (Giacomo) appare paradossalmente più incerto. L’immaturità emotiva del personaggio che in tutti i modi prova a tener saldo il timone lungo questo naviglio concettuale ci mostra tutta l’indeterminatezza del vissuto, ci evidenzia come il romanzo di formazione, lungi dal formarci realmente sia invece pieno di sbandamenti e dubbi. Di necessità d’ampi spazi subito abbandonati per piccoli e confortanti rifugi. Un’opera quindi complessa e perennemente attuale.

Immergiamoci dunque in questo viaggio musicale cercando di scandagliarne i vari tasselli.

 L'immagine può contenere: cappello

 

Le canzoni dell’album

L’entusiastico cinguettio de L’Ottava figlia di un Re apre un godibilissimo “trittico primaverile” che mostra sin da subito l’intento di Mescala: condurci nelle prime canzoni dentro un amore libero e a portata di mano. Tutto appare semplice e immediato, rigoglioso, con le effervescenti atmosfere musicali a rendere ottimamente la cifra del messaggio. La nostra donna è ancora una ragazzina a caccia del mondo, col cuore “schiavo di libertà” (Ragazza di città). Se l’apertura rimanda già dal titolo all’idea di sentimenti fiabeschi, il prosieguo, appunto Ragazza di città, simula una sceneggiatura in una Roma estiva, notturna e accogliente. Ogni licenza è concessa quando le luci si spengono, mentre Mescala e la sua musa sono completamente padroni della scena e del mondo, consapevoli del privilegio della propria gioventù, in un sentimento malizioso e sfuggente (è anche il caso di Signorina in blu), più che lascivo, libero. Un invito a concedersi all’altro in modo passionale, completo ma senza vincolo alcuno.

Bambole rotte ci mostra un primo arresto, trasportandoci musicalmente in un intenso intimismo, come a concederci un breve riposo, cullati in una quiete sognante che invita a dolci e ancora innocenti riflessioni.

Intimismo che continua ne Il sole si è spento, brano scritto in collaborazione col cantautore Simone Cortonesi, senese anch’egli. Dalle venature beatlesiane, la canzone racconta in un motivo nostalgico la fine di un amore. La scelta di un arrangiamento scarno e grezzo, permette a fronte di un testo piangente di non precipitare in un’eccessiva malinconia.

Se il ritmo e la melodia di Divinità riprendono il disinvolto pop di apertura, nel testo si intravede un nuovo “cedimento”, un ulteriore bisogno di studio di sé e della coppia. Immersi nella quotidianità, i due amanti osservano il mondo che per la prima volta non sembra più accoglierli ma metterli a lato, in un’estraneità addirittura cercata.

Il lato A si chiude con un pezzo a metà del guado, un ampio respiro musicale che prelude alla seconda parte. “Il tempo è un bugia per chi è romantico”, canta Mescala, come a voler ribadire i concetti dei primi pezzi; eppure adesso sembra difficile fermare qualcosa che invece inesorabilmente sfugge. In Scrivi ancora poesie i due amanti sono infatti sigillati ulteriormente nell’interiorità, nelle proprie nostalgie che adesso, non invitate, cominciano ad affiorare.

La tribale e ipnotica Cani Randagi apre con decisione la seconda parte di Psichèdelia. Il trapasso alla maturità è avvenuto, la porta per l’evasione spalancata. Anche l’ambientazione in una Londra sonnolente dice molto: Mescala non è perduto nei meandri dell’esistenza (non ancora) e invita se stesso a una prima seria meditazione. Una bottiglia apre le porte alla lettura del mondo e all’ennesima notte, stavolta da vivere in cerca di un nido, un luogo sicuro ove ripararsi dalle “nebbie che avvolgono la città”.

Il tema del rifugio e della nebbia, dunque dell’imperscrutabilità del mondo, è ulteriormente sviluppato nella seguente Ombre, nebbia e caffè. La nemesi dell’album è avvenuta in un lampo, senza che quasi ci se ne accorga. La primavera e l’estate delle note iniziali lasciano in fretta il posto all’autunno, alla melancolia di una ballata dove ormai i nostri protagonisti hanno fanno i conti con i perigli di quel mare in tempesta che è la vita: instabili, prigionieri del loro amore, amanti in cerca di pace.

E la tanto evitata decadenza giunge infine in uno dei pezzi più riusciti dell’intero disco: Dorian Gray, emblematico già dal titolo che richiama al celebre romanzo di Wilde. L’inconsapevole maturità del personaggio Mescala sembra suggerirci che il mondo fuori non è come si sognava (tematica ripresa poi ne La Verità). Che dietro le piazze ove lanciarci in infinite romanze, i “cani randagi” sono in agguato, se non sono proprio essi stessi, gli amanti! Che assieme ai sogni più dolci convivono demoni sfuggenti che inducono a fare i conti con l’inconsistenza del vissuto.
Le parole che egli rivolge all’amante di sempre (“ogni piroetta ti stravolge, vivere all’estero non fa più per te, un sogno alcolico ti fa ancora sorridere”) in realtà sembrano più indirizzate al proprio Io, che si interroga non tanto su cosa si trovi dopo aver sondato universi, anni, amori, ma in realtà cosa si vada cercando in essi.
Il capolavoro del brano è senz’altro l’innesto del pezzo rap di Zatarra (Marco Ottavi, affermato artista senese, marsigliese d’adozione). Il parlato esterno appare come la voce della coscienza di Mescala che cerca ormai di rattoppare la propria distruzione creatrice. La coscienza-Zatarra-Wilde mette a nudo l’impalcatura faticosamente costruita in una sfuggita gioventù; è tempo di guardarsi allo specchio e vedere ciò che si è realmente. Non esiste salvezza se non nella sincerità interiore e priva di maschere.

La consapevolezza con cui Zatarra conduce Mescala sul ciglio dell’interiorità lascia che ormai vi si precipiti: Pioggia d’inverno è un piccolo gioiello musicale che racconta questo. L’amore da trasognato si è fatto gelido. La notte, complice e inesauribile amante, sta per giungere alla fine. Ormai lo si sa. C’è la possibilità di una carezza, certo, ma la lacrima che l’accompagna ricorda laconicamente che parte del vissuto non tornerà.

Il finale straniante di Pioggia d’Inverno ci traghetta in un mood che riprende per vigore psichedelico Cani randagi, di cui appunto Bambini Cattivi sembra essere la sorellina minore, ma non per questo meno bella. In un mondo ormai estraneo se non ostile, perdersi nella notte appare nuovamente l’unica via. Ma è una finzione ormai: non si tratta di notte cullante né euforica o tantomeno giovane. E’ la notte delle passioni stravolte e per questo inconsce. Che consentono di perdersi e fuggire da un mondo fatto di “pagliacci di seta”, un universo che ormai traballa nell’attesa di scoprire ciò che è vero.

E qui giunge, sin dal manifesto titolo, il pezzo forte dell’intero album: La verità.
Ingannevole nella splendida e orecchiabile melodia che sembra farci riaffiorare dal precedente bagno nei meandri del mondo interiore, in realtà la canzone rappresenta l’approdo più profondo e filosofico dell’intera opera.
La quotidianità e la fuga da essa, motivo portante del Concept, sembrano qui strozzarsi nel momento in cui Mescala ricorda l’infanzia: la madre, il padre, una serenità sfuggita ma poi nuovamente inseguita e rimpianta. L’autore, ormai consapevole, pare tornare indietro per dire al se stesso bambino (e a tutti noi) che la voglia di maturità, l’anelito alla libertà e all’indipendenza nascondono spesso il velo della solitudine e che l’arrivo alla compiutezza, se mai esiste, lascia indietro piccoli frammenti di vita creduti inutili, in realtà dimensioni impossibili da accantonare: cogliere un fiore da bambini, saltare scuola da ragazzi, fermarsi al chiosco dei giornali per chiacchiere abitudinarie. La tua vecchia città da cui volevi evadere.
Emblematico come la canzone simbolo di un album a prima vista d’amore sia l’unica che non abbia una donna ad accompagnare il protagonista. Una riflessione ampia dunque sul sé, prima bambino e poi adulto, sulla sicurezza a volte vissuta come gabbia e che lascerà il posto al bisogno del viaggio, dell’amore, della passione, del mondo. Fino al pentimento? Non è dato saperlo. Si innesta però un dubbio che scava dentro e chiede: esiste mai un tempo appagante?
D’altronde il libro che racchiude la storia delle storie, il trapasso all’età adulta, non è interrogabile né comprensibile fino in fondo. Va letto e vissuto nelle sue contraddizioni, nel dualismo colmo di metafore che perennemente si presenta: primavera/autunno, gioventù/maturità, libertà/insicurezza. “Il tempo è una bugia per chi è romantico”, cantava Mescala al culmine del primo lato, cercando di riacciuffare con le unghie qualcosa di fuggito. Eppure il tempo sembra divenire certezza sul finale, l’unica anzi che abbiamo. Se non c’è una Verità al senso della vita, ebbene esiste quella dello scorrere del tempo. Tutto il secondo lato di Psichedelia è qui a dircelo.

Poteva benissimo fermarsi qui il disco ma il cerchio è veramente chiuso solo se si torna sulla lei che idealmente innerva l’intera opera. All’apertura smaliziata de L’Ottava figlia di un Re, corrisponde concettualmente L’ultimo ballo di Margot. Due idee di fiaba ma agli antipodi.
Appare finalmente il nome di questa donna che ha accompagnato Mescala, ma ormai, gettate le maschere, è meglio dire Giacomo, nel percorso di crescita e maturità, sino all’epilogo. Il ballo è dunque l’ultimo, come dice il titolo, il sipario delle recite si sta chiudendo. Alla fiaba iniziale, alla primavera e alla vitalità si è sostituita la pacatezza, l’introspezione, la consapevolezza, forse la vecchiaia. E’ ancora notte ma siamo agli sgoccioli e Margot, la donna, l’amica, la bambina, l’amante, la compagna, adesso la vecchia, compie assieme al nostro cantore errante un ultimo giro di giostra, un ultimo ballo appunto rimbombante dentro saloni austeri e splendidi, deserti. E’ il commiato di due esistenze immerse nel mondo, come abbiamo visto, eppure refrattarie e spesso avulse all’umanità. Passa la loro esistenza come la musica di questo bellissimo disco da ascoltare e riascoltare.

Mentre le “due rose piangenti” danzano solitarie, perdute nel loro sentimento ultimo, fuori, assieme alla tanto ripudiata ma infine agognata alba, la vita continua.

 

 

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Credo che l’uomo viva nel bisogno di raccontare e ascoltare storie: la propria, quella degli altri, quella di un dio. Così da sempre, forse per sempre. Probabilmente il non-senso della vita è racchiuso nel paradosso della scrittura: possedere estrema chiarezza ed estrema finzione al tempo, così che nelle sue affascinanti acque d’inchiostro non ci si stanchi di nuotare. Almeno a me fa questo effetto

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