A Shirley Jackson
La mattina era splendida, col sole che veleggiava sui tetti rossi e sopra la grande piazza. Alle finestre erano comparsi alcuni vecchi stendardi che qualcuno via via ritrovava in qualche scantinato o in alcuni palazzi abbandonati. E dove erano cuciti antichi stemmi di rioni scordati. Trecento anni dopo. Tanto che si discuteva ancora su come si chiamasse questo o quel quartiere, una volta. Del resto, dopo la guerra, la quasi totalità dei documenti era andata distrutta e della città era rimasta intatta solo una parte; comunque, un centinaio d’anni dopo la soppressione del rito, qualcuno propose di fare qualcosa che lo ricordasse.
Oggi, due secoli dopo quella proposta, tutti andavano fieri della commemorazione e la vita pian piano era ripresa pacifica, laboriosa, rurale. Si sapeva a grandi linee cosa era esistito prima, perché molti racconti più o meno veri erano stati tramandati. Di certo comunque c’era solo l’usanza della corsa in piazza. Non era stata la guerra, la corsa era finita prima, poiché un giorno morì una bimba di quattro anni, caduta dagli spalti e travolta da un cavallo andato troppo a largo lungo il piano.
I cittadini sapevano che allora la comunità, almeno dieci volte più grande di adesso, aveva fatto
grandi manifestazioni, che però non erano servite a salvare il gioco. Anzi, un’imponente protesta contro la soppressione era sfociata in tragedia, con centinaia di persone schiacciate nella calca prodottasi nella piazza. Così la corsa fu bandita per sempre.
Intanto il mattino di settembre, limpido e privo di nubi, aveva svegliato tutti e la folla, radunatasi in gruppetti, parlava del più e del meno agli angoli delle vie. Poi la gente iniziò ad affluire in piazza; i bambini portavano alloro e ghirlande mentre un manto erboso artificiale fu steso sulla vecchia pista anulare, perché un tempo si diceva vi crescesse l’erba dove oggi erano le pietre. Ecco arrivare i vessilliferi dei due terzieri e di seguito il Gran Carro: gigantesco e di legno, su cui era issata una stoffa retta da due aste chiamata Pallium, nome del trofeo di una volta, e che sarebbe andata al terziere estratto per il rito del Pupazzo. Sulla tela erano sempre dipinte scene d’infanzia in ricordo della tragedia di trecento anni prima. Infine giunsero le contrade in sfilata; benché non si conoscesse l’esatto numero dei rioni e la distribuzione territoriale dei secoli addietro, erano stati rinvenuti alcuni stemmi di quartieri che si presupponeva partecipassero alla corsa un tempo: Istrice, Vipera, Aquila Bicefala, Drago, Orso, Leopardo, Tartaruga, Gallo, Lupo, Oca. Il terziere chiamato di Valmontone era stato distrutto dalla guerra e nessuno aveva notizia delle contrade che un tempo lì sorgevano.
Gli uomini adesso erano tutti raggruppati alla curva canticchiando qualche vecchia arietta popolare; le donne invece erano stipate al centro della piazza e quelle del Passaggio stavano ancor più avanti poiché ogni poco giungevano i Redattori a controllare che non mancasse nessuno.
Alle undici ecco la “cerimonia dei cinque anni”: i bimbi che l’anno prima avevano fatto il Passaggio e di cui tutti andavano fieri.
Alle dodici era l’ora del pranzo comune, tutta la città a quel punto era riunita in piazza; ormai si iniziava a parlare davvero del Pupazzo, soprattutto le donne, le madri dei “quattro anni”.
Si mettevano in cerchio, bevendo fino a stordirsi. Qualcuna era pronta, altre dicevano fosse una cosa inutile, retrograda; ma lo dicevano piano perché in città la commemorazione era davvero sentita. Un dovere insomma. Nel tardo pomeriggio arrivò il momento della cerimonia vera e propria, coi discorsi solenni del Capo Redattore. Tutti annuivano e ogni poco l’orazione era interrotta da applausi scroscianti. Qualche madre era colta da un’emozione tremenda che cercava di mascherare, le bambine si lanciavano manciate di coriandoli.
Poi il cielo si tinse di rosa e di un rosso violento sulle guglie: era la volta dei Pupazzi. I trombettieri allora suonarono la marcetta dell’ora solenne in cui la piazza si svuotava. Le famiglie del Passaggio dovevano rincasare e lì avrebbero atteso. La moltitudine invece sfilò via dalla strada di fianco alla torre verso la Piazza del Mercato. Il buio calò sui quartieri lasciando in penombra tutta la città, come dormisse. Restarono solo i rappresentanti designati dei due terzieri e i fiaccolieri che di lì a poco si sarebbero mossi. Poi fu la volta dell’estrazione vera e propria: il Passaggio. Dunque i fiaccolieri uscirono dalla piazza.
La città era completamente immersa nell’ombra tranne le finestre delle famiglie del Passaggio che dovevano restare accese. Le donne stavano in silenzio al balcone, mentre il carminio delle torce irrorava le vie, sempre più vicino. Passavano i fiaccolieri di casa in casa e sostavano sotto. Non si udiva un fiato e se il corteo proseguiva la famiglia finalmente spegneva la luce.
Il lanciatore, estratto anch’egli in precedenza, intanto salì le scale verso la torre. Dalla cima si vedeva la moltitudine di cittadini stipati nella Piazza del Mercato levare mormorii di approvazione, finché al ritorno in piazza dei fiaccolieri non giunse sulla rocca merlata anche il Pupazzo. Il silenzio adesso aveva invaso tutti, quando batté la grande Campana e un suono fondo invase la città. Rimbombò nelle valli, nel buio dei vicoli, nelle piazzette, fino al vecchio terzo di Valmontone distrutto.
E il Pupazzo, accompagnato dall’urlo liberatorio della gente fu scaraventato dall’alto sulla
Piazza del Mercato, trinciandosi al suolo. La folla si aprì in due e nessuno emise più un fiato; poi gli
scavatori preposti presero il fantoccio per portarlo nella valle di fronte, detta “della Giustizia”.
Il rito era compiuto e ognuno adesso dibatteva felice.
“Ormai sono duecento anni che abbiamo anche noi la nostra tradizione.” Diceva un uomo
orgoglioso.
“Non so come fosse la corsa, ma questa cerimonia credo sia più sentita, è più viva.” Convenne un altro.
“Qualcuno comunque ci sarà sempre a dire che non è corretto.” Esclamò un terzo, che però fu
guardato male dal gruppetto.
“D’altra parte non è colpa nostra: è l’estrazione.” Disse un signore dall’aria posata.
“Quella caduta dagli spalti interruppe il rito…”
“E sappiamo bene ciò che è venuto dopo.” Continuò un altro fissando in lontananza la
Vallata di Valmontone.
“Ma la guerra mica ha coinvolto solo noi…” Provò a obbiettare un giovane.
“Degli altri posti sappiamo poco, ma la nostra città ha troppe colpe.”
“D’altra parte quando perdi il filo degli avi… – concluse un vecchio – E poi ha ragione quel
signore: decide l’estrazione!”
Frattanto gli scavatori avevano raggiunto la Valle della Giustizia, buia e costellata di paletti,
ognuno a distanza di un metro.
Il fiaccoliere fece luce sul tumulo dove andava seppellito il Pupazzo di quell’anno; la fossa
era pronta. Infine, come da rito, uno degli scavatori aprì il fantoccio scorrendo la cerniera e tastò
all’interno per sentire se s’avvertisse alcun respiro. Fece cenno col capo che il corpicino era fermo.
E la bimba di quattro anni fu sepolta.
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