“Se incontri il Buddha per strada, uccidilo!”
Linji Yixuan (monaco cinese)
Non eri ancora poeta e avevi una musa. Almeno così hai creduto.
Dagli occhi finissimi che si fingevano languidi. Correvi, vero?, sulle pietre di una casa, coi pensieri a bollire, le villette che lente digradavano a un vallone impetuoso. Il giacchetto d’aprile sullo sterno d’uccellino.
Su colline che nessuno afferra
spicchio di luce e case
torni,
pensieri
il giacchetto d’aprile,
sbrinare le spalle.
La parola suicida
sui cornicioni della bocca
chiedeva fiori
o una pira di stelle.
Al fiume che va con gli
argini segnati da millenni
avresti, giovane poeta,
affogato vita, vestito gonfio
a lima d’acqua;
avresti affogato lei
ancora confitta in petto
a galla morta,
Ofelia nucleare.
Hai venduto l’anima per fingerti poeta ai suoi fianchi e tenerle ritti i lombi. Leggendo libri impolverati, fuggendo la psicosi da tablet, l’erotismo ti si annidava in bocca come una serpe e sui seni rigonfi, stelline di nei sulla pelle e rigate le tempie di sangue, sfregi per amori mai posseduti. Sventro di vita puberale e fingevi d’amarla per tenerezza e accomodavi la spalla come suo lavatoio. Invece avvampava e danzava. Avvampava e danzava sull’infelicità dei passeri e la noia delle vigne deserte. Come la amavi, più che altro il suo sudore. Soltanto. Salato.
La musa esiste nella testa dei poeti fanciulli, solo crepita e borbotta bellezza, necessita poi di una lunga gogna, va trafitta di sogni, scracchi d’inchiostro a ritrarla. Ma il ballo che balla la rode, come un fauno inghiotte gli sterpi. E nella radura riposa poi, sfinita e nuda, sulla gramigna parassita, lei parassita di sentieri e sentimenti.
Le manca l’amore saffico per esser tutta, bianchissima, senza più addosso un goccio di sangue.
Ha la testa minuta, rozza e splendente. Sa solo piangere mentre ognuno la possiede.
Vuoi ferirti di spighe e farla smettere di ridere.
Quel suo riso, quello riesce a incendiare l’Impero, buttare a mare la vita, le mogli ovunque spaia. I mariti saranno ancora, quanti?, al tuo capezzale.
Non ti preoccupare giovane idiota, ti apparirà dopo decenni in sogno, ormai senza più danzare. Per strada, in un viottolo di sassi sotto l’incendio d’estate, al magazzino, commessa al rogo commerciale, nutrice, ospedaliera, custode. La potresti rovinare ora in un solo pizzico di parola, ma nel sonno spastico e immoto non parli. E non parla. Provi pena, la tua scrittura si è fatta eterna, voi invece siete coperti di un’intoccabile lana.
Allora invece tonava la sua voce. Tonava bianchissima, da bambina, era orrore di bellezza e assurdità. Esser stato poeta per lei, mentre gli amici erano lontani, il pugnale dentro l’asola del tuo petto. Tornavi via dai prati bruciante, costeggiando una città dai lombi mattonati e mestieri orrendi. E le mura erano rosse dogane, al di qua gli amplessi sognati, una cameretta dove la tua anima starnazzava. E scribacchiavi lettere infinite da gettare, frasi di balbuzie.
La musa con l’accetta limava ogni volta un pezzo di te. Grumoso sangue di versi ne usciva, sopportavi a stento, ma sopportavi.
Dopotutto la gioventù è la prima bestia da soma della vita e fa così: sopporta. Abituata, se un angelo giunge a raccattare lo strabordante carico ugualmente è zoppa.
Ecco di quali cicatrici si veste la sera e il tempo adulto.
Vivevi ragazzo sulla lingua di burrone
sputavi in alto l’acquerugiola e strappavi
gambicelli d’erba azzurra,
le radici che montavano la
terra.
Senza farti vedere
impegnata a placare d’un fiato
il violento bisogno di mandibole.
Tirannica bellezza di neve
nuda goccia goccia
ti mescolavi ai boccali,
grondante schiuma. Vita
o sperma o fiori.
Vent’anni o dieci manciate
di sete.
Ma più che amore era nido di stelle
E febbre, da mangiare
il tuo scalpo.
Stesi tra le erbe cannibaline
i ramarri vi uccidevano di suoni.
I baci: foglie morte,
dicesti, leccandomi la bocca
come un flauto imperniato
del moccolo di bimbo.
Eri monco, ragazzo.
Ed eri già morto.
La tua casa adesso è invasa dal diabete normale. E tutto odora di buono sulla credenza ripiena, al termosifone che gocciola di panni, sotto le finestre a vita appena schiusa di mattina. I vetri con appiccicati alcuni festoni di un vecchio Natale. Nemmeno una buona moglie in sorte ma tre figli maschi dalle ciocche di bronzo, le carni biondine da fata. Alla sera torni ubriaco per non udire in Piazza del Re lo zirlo delle vicine. Col rumore di rospi, i travi sul soffitto in fila come brividi, il bagno ove ogni poco vai, da vecchio. Le cosce di lei vicino. E puoi solo stare col petto in alto, la pancia sciaguattata di vino marcio. La schiena irta di serpi e i capelli come formula sul cuscino. Le assi delle persiane ghignano listelle di luce e al di là si crede vi siano altre case, altri dolori, altri intonaci dipinti.
Sessi appaiati e carni. Mostri qua e là nei cantucci dei palazzi. Lei ora sarà una gigantesca tempesta di nulla.
Ricordi che chiami a fatica, di quando qualcuno aveva la carne adatta al tuo rozzo scrivere, al tuo maldestro macellare.
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