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Il castello

20 Novembre 2019

C’era un viottolo sterrato e da un lato, proprio al principio di un crinale erboso, salivano alcuni splendidi cipressi. Sotto e più nascosto frusciava un torrentello quasi invisibile, la cui presenza si percepiva solo da quello stesso frusciare: un quieto gorgoglio verso alcune casine gialle e ammucchiate; qualcuna di certo abbandonata, forse distrutta in una guerra lontana.
Nerissimo, sulla montagna di fronte si ergeva invece un mucchio nero di pietra, un vecchio forte, un castello; diroccato anch’esso e con due dei tre torrioni mozzi che lei sapeva essere appartenuto un tempo a un signorotto. Il ruscelletto lambiva soltanto le pendici del monte e moriva in un torbido stagno i cui bordi parevano un tutt’uno con una rotaia più distante.
Il sogno continuò ancora.

Lorella si rigirò sul letto, nervosa e sveglia ormai. Matteo dormiva ma avvertendo il braccio di lei a contrasto con la schiena cercò di spostarlo mugolando qualcosa; la donna restava attonita. Dette una gomitata al marito che sbuffò ancora.

“Matteo, Matteo!”
“Che c’è?” Brontolò l’uomo tirando a sé il mucchio di coperte. Aprì un occhio, la sveglia segnava le cinque.
“Ho fatto un sogno buffo, sai…”
“Non me lo puoi dire domani?! – ma lei lo smosse – Aspetta, vado in bagno.” Disse ormai sveglio.
“Ricordi la montagna, a scuola?”
“Cosa?”
“La gita in montagna.”
“La gita alle superiori? Sono passati venti anni, Lorella. Dai, dormiamo”
“Un sogno strano.” Ridendo senza convinzione e accoccolandosi alla spalliera, le mani ad abbracciare le ginocchia. “Eravamo io e te, però non c’era la neve come allora. Era primavera, c’era persino un ruscello.”
“Beh? Come fai a sapere che era quello il posto?”
“Perché c’era il castello sulla montagna, quello che vedevamo dalle piste. Ricordi?”

L’uomo sentì un gemito e si alzò a controllare la piccola Silvia; nella penombra della cameretta la vide scoperta, come sempre, il visino rischiarato dalla luce della piccola lampada a forma di coccinella. Le sistemò il piumino e tornò dalla moglie che intanto si era affacciata al balconcino a fumare.
“Ma sei matta? Fa freddo!”
“Nel sogno c’era tutta la valle, però era come… nuda. Sì, nuda e in fiore, col ruscello che scorreva accanto a quelle che erano piste. Sotto, alcune case abbandonate e si camminava nel centro del paese disabitato. E poi su su fino al piccolo cimitero, mi pare fosse inglese. Quello che visitammo con la prof quando ci prendemmo a pallate di neve.” Matteo sorrise.
“Sì, qualcosa ricordo. Ora possiamo dormire?”

Lei spense la luce accorgendosi che il sogno pian piano andava svanendo, sciogliendosi come il manto di neve sulla montagna.
Andavano sciogliendosi loro?
Ma udì la bimba piangere e soppresse subito quel pensiero. Avrebbe voluto che andasse Matteo come pochi minuti prima, ma l’uomo dormiva di nuovo. Si alzò camminando verso la cameretta; toccò Silvia, l’abbracciò e in un attimo la piccola s’avvinghiò al pigiama della madre con le manine rattrappite, schiarendo la fronte dalle rughe del pianto.
Indecisa se tornare o meno a letto, Lorella s’arrestò in cima alle scale.
Sono pazza? Cosa? Sono pazza? Ripeté a sé stessa, raggelando.
Gli abeti e la neve, loro due allora, loro due poi, per sempre. La neve e i ragazzi del piccolo cimitero inglese morti cento anni prima. Chi erano? 1917 c’era scritto sulle tombe. Ricordava solo quello.

Scese al piano di sotto e accese un’altra sigaretta. Del sogno pian piano svaniva anche il verde vivo dei prati, il marmo delle lapidi, i cornicioni diroccati del paese e il gloglottio del ruscello. Restava il maniero in alto, bruno sulla valle cinta di sole. L’unica cosa rimasta di quei sedici anni.

Cosa ricordava poi? Che lo aveva conosciuto lì Matteo: era dell’altra sezione, erano due ragazzini. E che vicino al piccolo camposanto avevano fatto a pallate. E che la sera nel corridoio dell’albergo si erano baciati. E cos’altro?
Che erano stati insieme tutta la vita.

Singhiozzò di paura rivedendo le lapidi, la vita sprecata dei ragazzi inglesi morti in un sempiterno e sperduto pantano d’Italia, sotto la neve muta e violenta; gli parve udire il tinnare delle gavette, i passi silenziosi sul bianco, il raglio dei muli, i frammenti di pigne affiorati tra gli obici, vicino ai tronchi. E gli obici stessi, il rimbombo e i grumi di sangue. Immaginava la sepoltura di qualcosa. Lettere mai spedite, occasioni perdute per cose di cui forse inizialmente provavano slancio, eccitazione, bisogno.
D’un tratto, un’alba bianca rischiarò tutto fuor di finestra. Silvia dormiva e anche Matteo. Ecco la fine del sogno, solo quella ma nitida: loro due soli, però ragazzini come la prima volta.
Lui che giocava tra le lapidi scansandola, deridendola. Lei che gli andava dietro. Ma d’altronde non era stata così tutta la loro vita?!?

Alla fine del sogno c’erano il cancello aperto e il viottolo privo di neve. Lo scendeva sola, senza timore d’essere seguita da Matteo.
E proseguendo alzò gli occhi temendo quella visione sopra il ruscello e le prime case sciupate; ma la montagna era nuda, libera. E il castello nero scomparso.

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Credo che l’uomo viva nel bisogno di raccontare e ascoltare storie: la propria, quella degli altri, quella di un dio. Così da sempre, forse per sempre. Probabilmente il non-senso della vita è racchiuso nel paradosso della scrittura: possedere estrema chiarezza ed estrema finzione al tempo, così che nelle sue affascinanti acque d’inchiostro non ci si stanchi di nuotare. Almeno a me fa questo effetto

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